Governo
Renzi, il consenso è ai minimi. Ora bisogna davvero cambiare verso
D’accordo. I sondaggi non sono perfetti. Lo sanno tutti ormai. Ciononostante, a saperli leggere ed interpretare correttamente, sono sempre pieni di informazioni utili sulle tendenze di fondo, nel nostro caso, del clima politico-elettorale che stiamo vivendo. Perché le radici della non brillante performance del Pd e del suo leader, alle scorse regionali, erano già presenti da molte settimane nelle indagini demoscopiche. Una sottile quanto costante caduta di consensi aveva preso forma fin dall’inizio di quest’anno. Niente di grave, pareva, inizialmente; soltanto qualche punto in meno nella fiducia in Renzi e nel suo governo, rispetto all’esagerato risultato delle europee del 2014. Come era logico, vista l’altezza di quel picco solitario, nella storia del maggior partito dell’area di sinistra (o di centro-sinistra, se più vi piace). Piccoli segnali di assestamento di un consenso che ancora non sembrava venir intaccato in maniera significativa.
Bastava osservare meglio. In particolare, l’opinione di chi intendeva astenersi. Perchè è la loro percezione la vera cartina di tornasole delle fortune di ogni governo, di ogni leader politico. Se prendiamo in considerazione l’elettorato schierato per un determinato partito, è inevitabile trovarci davanti a giudizi positivi tra gli elettori di governo e a giudizi meno positivi (se non decisamente negativi) tra quelli di opposizione. Appare logico ed evidente. E questa informazione non ci dice molto di più della vicinanza o della lontananza dall’esecutivo in carica dei diversi votanti di area. Non è così per gli astensionisti, tra coloro che si dichiarano lontani da ogni forza politica in gara. Sono a volte chiamati, in termini un po’ spregiativi, il “ventre molle” della popolazione elettorale, coloro che non vengono coinvolti dalle materie politiche, che si disinteressano dei talk-show, che guardano appena i risultati del voto, che sono molto restii ad entrare nelle cabine elettorali se non, raramente, in occasione di elezioni decisive per le sorti del paese.
Ciononostante, sanno fiutare l’aria. Posseggono antenne quasi inconsce. Percepiscono in anticipo gli accadimenti ed il clima che si crea nell’opinione pubblica. E così è accaduto anche in questo caso. Nei primi mesi di insediamento, dopo un primo impatto tiepido, Renzi veniva valutato positivamente da oltre il 55% di loro, di coloro cioè che dichiaravano che non sarebbero andati a votare. Una quota rimasta pressoché invariata fino allo scorso autunno. Da ottobre a gennaio, si assisteva ad un deciso ridimensionamento, che portava la loro fiducia nel premier a quote intorno al 35-40%. Poi, da febbraio in poi, i giudizi positivi si facevano sempre più rari, fino a giungere ad un modesto 15% poco prima delle consultazioni di maggio. Tutto era già scritto, dunque, e l’attuale declino che ha investito anche il resto della popolazione non fa altro che confermare quella loro percezione, che anticipava di fatto il pensiero di molta parte degli altri italiani.
Sì, perché oggi il gradimento di Renzi e del suo governo è ai suoi minimi storici. Supera di poco il 30%, o il 35%, a seconda dei diversi metri di misura con cui si misura questo indicatore. Ma resta comunque molto basso, quasi dimezzato rispetto ad un anno fa, quando eravamo nei pressi delle elezioni europee. Una caduta di consensi cui ha ovviamente contribuito il risultato del voto regionale, ma che probabilmente ne prescinde. Gli italiani, che si sono fidati di lui in questi mesi di governo, ora non sono più tanto sicuri che sia lui l’uomo giusto per risollevare le sorti del paese. Per questo Renzi, se vuole guidare l’Italia fino al 2018, deve riconquistare vaste parti dell’elettorato. Deve cambiare verso lui stesso, ora.
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