Giustizia

Il Giornalista Gentiluomo che oggi rischia il carcere

11 Maggio 2015

“Non bisogna forzare assolutamente le cose, ma bisogna opporsi a ciò che accade e che stravolge i nostri diritti…”

Così parlava l’indiscusso genio registico di Leo de Berardinis in una delle sue ultime interviste, prima di entrare in coma nel 2001 e spegnersi definitivamente nel 2008. Ma oggi lui è solo una scusa – perdonerà – per parlare del suo intervistatore, Antonio Cipriani. Ho sempre pensato che avrei recuperato questa stupenda intervista per ragionare su altri infiniti spunti che lancia. Ma a volte le urgenze cambiano, e ora io sento quella di far conoscere a più persone possibili la storia di un giornalista gentiluomo che oggi rischia il carcere.

Se qualcuno del Tribunale di Oristano che ha inviato una mail (!) contenente un ordine di carcerazione, potesse conoscere l’umanità e l’onesta intellettuale di Cipriani, probabilmente si renderebbe conto da solo che a volte è più sensata la disubbidienza dell’applicazione della norma. La frase non vuole aprire riferimenti e connessioni con fatti recenti ben distanti da questo episodio. È che in Italia troppo spesso prevalgono ragionamenti diversi dal buonsenso. O un sistema iperlegiferato, incongruente e in conflitto con sé stesso, che genera questo tipo di mostri, finendo per sconfessare la Costituzione stessa.

Ho conosciuto Antonio che avevo appena vent’anni. Lui era da pochissimo direttore di quel giornale che l’ha rovinato per i successivi quindici: arrivavo a Cagliari con la testardaggine di poter portare le Pietre Sonore di Pinuccio Sciola in mostra a Bologna. Megaliti di quintali cui far attraversare il mare, per collocarli in un parco del capoluogo emiliano e lasciarli alla libera fruizione e fascinazione delle persone, perse tra i loro suoni siderali e le loro forme così arcaiche e contemporanee insieme. Un’operazione di arte pubblica che all’epoca probabilmente non sapevo neanche definire.
Antonio è stato uno dei primi sostenitori dell’idea e dei miei entusiasmi. A favorirne la realizzazione. E mi chiese anche se non volessi fermarmi lì, sull’Isola, o magari aiutarlo ad aprire un’altra redazione di EPolis in terraferma. Risposi a malincuore di no, perché il mio lavoro non è mai stato scrivere, ma fare succedere delle cose. Ci siamo tenuti in contatto, parlando d’arte, di film, di amici comuni e poi rivisti anni dopo, a Milano, come se non fosse passato alcun tempo in mezzo: ora lui a difendere la città dall’Expo e il Quartiere Isola dalla gentrification, e a difendere Globalist, la sua nuova testata online. Non sapevo, al nostro ultimo incontro, che intanto erano quattro anni che difendeva anche sé stesso dai tribunali di tutta Italia, né ne ha mai fatto menzione.

So quindi quanto possa essergli costato scrivere quest’articolo per rendere pubblica una vicenda che ha dell’assurdo: in sostanza, 34 processi che ora pendono esclusivamente su di lui a causa di un articolo riconosciuto come diffamatorio, scritto da un giornalista professionista su EPolis quando lui ne era Direttore. Si dà il caso che Antonio abbia poi lasciato la direzione della testata quando cambiò proprietà, testata che da lì a poco – forse non a caso – fallì. Di conseguenza, quella legge che in simili controversie porta le responsabilità all’80% sugli editori e il 20% diviso tra Direttore e giornalista coinvolto, è ricaduto al 100% su una persona sola. Che non ha, come molti, abbastanza denaro per difendersi, per patteggiare, per trattare la propria libertà (la libertà non si tratta). E per questo oggi  rischia il carcere, per “omesso controllo” di un articolo, su circa 800 pagine stampate al giorno, per 15 diverse edizioni di giornali in tutta Italia.

Qui non si discute che ci possa essere stata un’effettiva responsabilità, o un sistema di deleghe non perfettamente funzionante. O forse è che il sistema giornalistico si sta trasformando così rapidamente da non poter rispondere con le stesse logiche e strumenti di anche solo 20-30 anni fa.

Qui si discute il fatto che la condanna al carcere è arrivata perché all’interno di questo sistema, ad un Antonio che non può permettersi di pagare avvocati che seguano 34 cause diverse, finisce che una sfugga e finisca con una condanna al carcere. Già finire in carcere per un generico reato di opinione suona strano, sia per la natura del reato, che per il genericismo: Antonio non aveva responsabilità dirette su quell’opinione, scritta di pugno da un giornalista iscritto all’Albo. Finirci perché ricadono su di te responsabilità incommensurate perché il tuo editore si dilegua e perché non hai la capacità economica di difenderti, è inammissibile. Resta che il carcere è una cosa seria. O meglio, se in Italia lo fosse, sapremmo anche distinguere chi del carcere ha bisogno e chi no (e magari anche costruirvi intorno politiche riabilitative di senso, vedi ad es. il bellissimo documentario Menomale è lunedì, di Filippo Vendemmiati); sapremmo distinguere persone su cui la privazione della libertà personale può avere un effetto umanamente e socialmente utile e persone su cui anche solo l’idea stessa di carcere può essere umanamente e socialmente devastante.

E questa storia (così come le altre più dibattute riguardanti l’Unità), rientra nell’ultimo caso, perché è già un deterrente per chi ha intenzione di praticare la professione in modo onesto e trasparente. Una professione dove l’etica del singolo deve prevalere su forme più o meno ammissibili e stringenti di controllo. Perché il controllo, nel giornalismo e in generale nell’ambito della libertà di espressione, finisce spesso per chiamarsi censura, e non si può innescare il rischio della censura o autocensura preventiva. Perché – nel giornalismo come altrove – è un diritto potersi assumere responsabilità a prescindere dal tenore del proprio patrimonio e di eventuali pene commensurate al tipo di danno che si commette. Mentre chi governa “deve garantire la libertà, e non garantirsi il potere […]. Questa è la sintassi della democrazia.” Conclude Leo de Berardinis, sempre in quell’intervista. Leggetela, a prescindere.

In bocca al lupo, Antonio.

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