Giustizia
La responsabilità civile dei giudici: cos’è, come funziona, come cambia
Il governo Renzi ha avviato il suo progetto di riforma della giustizia, che tra le tante cose prevede una modifica del regime di responsabilità dei giudici. Se ne parla da tempo e c’è un sostanziale accordo tra le parti politiche nel ritenere che la normativa così com’è non funzioni. Questa vuole essere una doppia guida per chi vuol capire cosa prevede il testo vigente, perché l’Europa è continuamente tirata in ballo e come il governo intende modificare la materia. Ce n’è una completa e approfondita e un’altra molto sintetica, per chi non ha tempo, in grassetto alla fine di ogni paragrafo.
La particolare posizione del magistrato
Nel nostro ordinamento costituzionale (si leggano a questo proposito gli articoli 101, e da 104 a 108 della Costituzione) il principio d’indipendenza e autonomia dei giudici è un principio cardine. Dalla tradizionale divisione dei poteri di Montesquieu, discende che nei sistemi giuridici continentali la regola, la legge, è posta da organi dello stato come Parlamento, Governo (e da noi in parte dagli enti territoriali) mentre è applicata dai giudici; essi perciò partecipano al procedimento di formazione del diritto in maniera indiretta a differenza degli ordinamenti common law. Questo aiuta a comprendere la loro particolare posizione: titolari di una funzione pubblica, essendo nominati per concorso, sono impiegati dello Stato e il merito dei loro atti non può essere assoggettato ad alcun controllo, perché preventivamente fissato dalla legge.
Ai giudici va garantita indipendenza e autonomia, perché nell’esercizio delle loro funzioni devono sia essere che apparire terzi e imparziali. Terzietà e imparzialità sono proprio le caratteristiche che differenziano i giudici dagli altri organismi statali titolari di funzioni diverse. Va ricordato inoltre, che il potere giudiziario è inteso in senso diffuso, come un potere in cui non vi è alcuna soggezione di tipo gerarchico tra gli stessi magistrati, ma soltanto differenziazioni derivanti dalla diversità dei compiti loro assegnati. Diretta conseguenza di questa configurazione è la circostanza che qualunque magistrato possa sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto suo rappresentante.
In ultimo, ed è un punto fondamentale del ragionamento, bisogna chiarire che la funzione giurisdizionale viene esercitata laddove esiste l’esigenza di dirimere un conflitto, sia esso penale/amministrativo (Stato contro cittadino) o civile (cittadino contro cittadino). La decisione che il giudice deve, non può, deve rendere, postula il sacrificio delle aspettative di una delle parti: nel processo non esiste il pareggio, ma una parte vincente ed una soccombente. Può apparire perciò chiaro quanto il giudice sia esposto alle rivendicazioni di chi perde.
In breve- Nel nostro sistema costituzionale il principio di autonomia e indipendenza della magistratura è fondamentale. Il magistrato è un funzionario pubblico con delle caratteristiche peculiari, non può essere assoggettato ad alcun controllo sul merito dei suoi atti perché sottoposto solo alla legge. Il potere giudiziario va inteso in senso diffuso: ogni giudice rappresenta da solo il potere di cui fa parte, tanto da poter sollevare in maniera autonoma il conflitto di attribuzioni. Va aggiunto, e ciò è particolarmente importante in tema di responsabilità civile, che il giudice, dovendo dirimere una controversia, è naturalmente esposto alle rivendicazioni di chi perde. E nel processo il pareggio non esiste, ça va sans dire.
Il regime di responsabilità del magistrato prima e dopo l’entrata in vigore della Costituzione
Nel periodo liberale e in quello fascista (secondo gli articoli 55, 56 e 75 del codice di procedura civile del 1940), la responsabilità civile per i danni ingiusti provocati dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni era praticamente esclusa, o comunque molto limitata. Il giudice era civilmente responsabile soltanto in due gruppi di ipotesi: quando, nell’esercizio delle sue funzioni, fosse imputabile di dolo, frode o concussione; quando, senza giusto motivo, rifiutasse, omettesse o ritardasse di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto dovuto. Non era prevista responsabilità in caso di colpa grave. Una tale limitazione è facilmente spiegabile dal punto di vista storico: non esisteva una costituzione rigida e il pubblico ministero veniva visto come il «rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria» (R.d. n. 3781/1859; R.d. n. 2626/1865). Da qui, lo scarso interesse da parte del legislatore nel permettere un eventuale azione di responsabilità nei confronti del magistrato e quindi dello Stato.
A seguito dell’entrata in vigore della Costituzione la normativa, rimasta la stessa, è stata arricchita dall’art 28 Cost.: “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti.” La posizione del Magistrato nei confronti di un terzo che voglia ottenere un risarcimento perché si ritiene danneggiato dalla sua condotta è però, come ricordato nel primo paragrafo, per forza di cose diversa rispetto a quella degli altri dipendenti pubblici.
Questa particolare posizione è stata chiarita anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza 2 del 1968: «l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e del giudice ovviamente non pongono l’una al di là dello Stato, quasi legibus soluta, né l’altro fuori dall’organizzazione statale. Il magistrato è e deve essere indipendente da poteri e da interessi estranei alla giurisdizione; ma questa è funzione statale ed i giudici, esercitandola, svolgono attività abituale al servizio dello […] la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione super partes del magistrato possono suggerire, come hanno suggerito ante litteram, condizioni e limiti alla sua responsabilità; ma non sono tali da legittimarne, per ipotesi, una negazione totale, che violerebbe apertamente quel principio o peccherebbe di irragionevolezza sia di per sé (art. 28) sia nel confronto con l’imputabilità dei pubblici impiegati” (d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, e art. 3 della Costituzione)».
In breve- Nel periodo liberale e poi in quello fascista, la responsabilità del magistrato, regolata dagli articoli 55, 56 e 75 del codice di procedura civile del 1940 era molto limitata: si poteva chiedere risarcimento solo qualora fosse ravvisabile dolo, frode o concussione o quando il giudice rifiutasse di emettere un provvedimento dovuto. A seguito dell’entrata della Costituzione la normativa, rimasta la stessa, s’è arricchita grazie all’art 28 Cost., di disposizioni riguardanti i dipendenti pubblici che devono rispondere “degli atti compiuti in violazione di diritti”. La posizione del magistrato è però comunque diversa rispetto a quella degli altri dipendenti pubblici, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.2 del 1968.
Il Referendum del 1987
Nel 1987, sull’onda del caso Tortora, su iniziativa dei radicali, del PSI e del PLI, viene proposto un referendum per abrogare gli arti 55, 56 e 74 del codice di procedura civile e costringere il Parlamento a intervenire in materia. La Corte, nel dichiarare ammissibile la richiesta, chiarisce che nel caso di successo del referendum il legislatore non potrà legiferare con totale discrezione «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni». Al referendum partecipò il 65% del corpo elettorale (quasi 30 milioni di persone), si dichiararò a favore più dell’80% dei votanti. La normativa fu dunque abrogata.
In Breve-Nel 1987 gli articoli del codice di procedura civile che contenevano la normativa sulla responsabilità dei giudici vengono abrogati da un referendum proposto da Radicali, PSI e PLI. I “sì” vinsero con più dell’80% dei votanti.
La Legge Vassalli
Le raccomandazioni della Corte vennero tenute in considerazione dal Parlamento che con la legge 13 aprile 1988 n. 117 disciplinò ex novo la materia. Il provvedimento, tuttora in vigore, contempla infatti una responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del magistrato; chi si ritiene danneggiato può dunque agire esclusivamente verso lo Stato (art. 2), al quale è poi attribuita una limitata azione di rivalsa nei confronti del giudice, in misura non superiore a al terzo di una annualità dello stipendio (art. 8 comma 3).
È chiaramente prevista, sarebbe assurdo non lo fosse, la possibilità di agire direttamente contro il magistrato se esso ha compiuto un reato nell’esercizio delle sue funzioni. Tale caso non è disciplinato dalla legge in questione ma dalle regole ordinarie.
Tornando alla responsabilità civile, il nuovo testo stabilisce che «chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale» (art. 2, comma 1). Le fattispecie che possono configurare una responsabilità del giudice sono dunque tre, conviene esaminarle separatamente:
1- Il concetto di dolo non è descritto o precisato dalla disposizione di legge. Tuttavia può essere agevolmente rintracciato nell’art 43 del codice penale: “Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. In poche parole il magistrato deve violare in maniera cosciente e volontaria la legge per poter essere responsabile.
2- I casi di colpa grave sono invece puntualmente specificati dalla legge stessa al comma 3 dell’art 2. Sono quattro:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
3- L’ipotesi di responsabilità per diniego di giustizia (art 3), ricorre quando il giudice, trascorso il termine previsto dalla legge per il compimento dell’atto, persista nell’omettere il comportamento dovuto, senza giustificato motivo. Cioè quando il giudice, rifiutandosi di compiere atti dovuti, viene meno al proprio dovere costituzionale: applicare la legge cui è sottoposto. L’articolo 2, con la cosiddetta “clausola di salvaguardia” specifica che non può in ogni caso dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2, comma 2). Questo è considerato uno dei punti critici della legge da parte di chi la critica (e anche dalla giurisprudenza europea, come vedremo) perché tale previsione pone un problema di difficile soluzione: qual è il confine tra detta attività interpretativa legittima e le ipotesi che configurano la responsabilità per colpa grave, specialmente quella per violazione di legge?
A questa domanda, la Corte di Cassazione ha risposto. Essa ha messo in luce la differenza tra le due ipotesi sopra ricordate, soffermandosi in particolare sulla locuzione “negligenza inescusabile” . Conviene citare, ad esempio, la recente sentenza del 14 febbraio 2012, n. 2107 “questa Corte ha già posto in luce, tale qualificazione della negligenza, in quanto aggiunta dalla norma a fini delimitativi della responsabilità, mediante esplicitazione del concetto di gravità della colpa, integra un quid pluris rispetto alla negligenza, nel senso di esigere che essa si presenti come “non spiegabile”, vale a dire senza agganci con le particolarità della vicenda, idonei a rendere comprensibile anche se non giustificato l’errore del giudice.”
Per quanto riguarda la procedura, l’azione risarcitoria si propone nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, entro due anni dal momento in cui l’azione è esperibile. Secondo l’articolo 4 della legge l’azione di risarcimento del danno può essere esercitata soltanto quando tutti i mezzi ordinari di impugnazione sono stati tentati o quando è esaurito il grado del procedimento. Questa previsione si spiega con l’intenzione di evitare che l’azione risarcitoria diventi un’alternativa ai normali rimedi processuali.
Secondo l’articolo 5 una volta proposta, l’azione non dà immediatamente luogo ad un giudizio, ma è soggetta ad un filtro: il controllo di ammissibilità svolto dal tribunale. L’inammissibilità, che si configura nei casi di mancato rispetto dei termini o dei presupposti di cui agli articoli 2, 3, 4 e nel caso di manifesta infondatezza, è dichiarata con decreto motivato (reclamabile). Qualora invece la domanda venga considerata ammissibile il tribunale dispone la prosecuzione del processo nei confronti dello Stato. La previsione di questo filtro è motivata da un lato dalla necessità di evitare che vengano proposte azioni temerarie o pretestuose, dall’altro per un principio di economia processuale. Se non ci fosse il filtro il processo (che come noto, è tutt’altro che breve) dovrebbe svolgersi in maniera completa, anche in caso di azioni manifestamente infondate.
In breve- Il Parlamento con la legge 117 del 1988 disciplina ex novo la materia. La nuova legge prevede una responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del Magistrato con possibilità però di rivalsa nei suoi confronti fino ad un terzo dello stipendio annuale. Fermo restando la possibilità di agire direttamente contro il magistrato se questo ha commesso un reato, può chiedere il risarcimento soltanto chi abbia subito un danno ingiusto a seguito di un atto posto in essere con con dolo o colpa grave oppure per diniego di giustizia. Il comportamento, per poter esperire con successo un’azione di responsabilità, dev’essere determinato da “negligenza inescusabile” e cioè non scusabile in alcun modo. Non può mai dare luogo a responsabilità l’interpretazione della legge o la valutazione del fatto o delle prove. Una volta proposta, l’azione non dà immediatamente luogo ad un giudizio, ma è soggetta ad un filtro, rappresentato dal vaglio di ammissibilità svolto dal tribunale. Se questo vaglio è positivamente superato il tribunale dispone la prosecuzione del processo nei confronti dello Stato.
Cosa ci chiede l’Europa?
Uno degli argomenti usati da tutti quelli che hanno provato a modificare la legge Vassalli è attribuirne la richiesta all’Europa. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in effetti sulla necessità che lo Stato risarcisca un cittadino danneggiato da una decisione giurisdizionale avvenuta in manifesta violazione del diritto.
Le sentenze che interessano sono due:
Nella prima, la celebre Traghetti del Mediterraneo del 2006, la Corte chiarisce i dubbi del Tribunale di Genova che aveva sollevato rinvio pregiudiziale, il modo in cui i Tribunali nazionali degli Stati membri chiedono alla Corte di pronunciarsi sulla corretta interpretazione o validità di una norma europea. La questione pregiudiziale, che chiede di stabilire la conformità al diritto europeo della legge 117/1988, è volta a comprendere se, posto che uno Stato membro risponde degli errori dei propri giudici nell’applicazione del diritto comunitario (come stabilito dalla Sentenza Köbler) osti all’affermazione di tale responsabilità una normativa nazionale come quella italiana che:
a. Esclude la responsabilità in relazione all’attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell’ambito dell’attività giudiziaria,
b. Limita la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice.
Riguardo il punto a, la Corte Europea ragiona sulla questione interrogandosi (punti 34-35 della sentenza) sul bilanciamento tra interpretazione della legge come cuore dell’attività giurisdizionale e sugli eventuali diritti lesi da un’interpretazione di legge manifestamente erronea. È utile riportare un passo di questo ragionamento:
Da un lato, infatti, l’interpretazione delle norme di diritto rientra nell’essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale poiché, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti – nazionali e/o comunitarie – al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta. Dall’altro lato, non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia, o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente.
Escludere in simili circostanze qualunque responsabilità dello Stato a causa del fatto che la violazione commessa dal giudice deriva da un’operazione di interpretazione delle norme giuridiche, vorrebbe dire ignorare i principi posti dalla giurisprudenza della Corte Europea, in particolare nella sentenza Köbler.
Per quanto riguarda il punto b, e cioè valutazione delle prove e del fatto, per la Corte si deve giungere ad analoga conclusione (punti 38-39-40). Una tale valutazione costituisce sì un altro aspetto essenziale dell’attività giurisdizionale, perché è proprio dalla valutazione dei fatti che il giudice sceglierà l’applicazione della norma ma, allo stesso tempo, può condurre ugualmente, in certi casi, ad una manifesta violazione del diritto vigente. Escludere quindi, in tali casi, ogni possibilità di sussistenza della responsabilità dello Stato equivarrebbe di nuovo a privare di effetto utile il principio sancito nella summenzionata sentenza Köbler.
La sentenza chiarisce anche quando sarebbe integrata la fattispecie di violazione manifesta del diritto, necessaria affinché sorga il diritto al risarcimento. Essa va valutata rispetto al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere scusabile o inescusabile (deve essere inescusabile) dell’errore di diritto commesso. In più, aggiunge la Corte, la violazione manifesta si valuta anche in caso di mancata osservanza dell’obbligo da parte del giudice di sollevare rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, mentre è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia. Affinché la richiesta di risarcimento del danno sia fondata, andrà provato che la norma violata ha per oggetto il conferimento di diritti ai singoli e che esiste un nesso di causalità diretto tra la violazione manifesta invocata e il danno subito dall’interessato.
Questa decisione da parte del giudice europeo avrebbe dovuto spingere il legislatore italiano ad intervenire e modificare il sistema vigente. Ma, a parte qualche discussione sulla modifica alla responsabilità in senso diretto (chi subisce un danno cita direttamente il giudice e non lo Stato) generata dall’emendamento Pini, nulla è stato fatto.
Si è arrivati così ad un’altra sentenza: la n. C-379/10 del 24 novembre 2011. La Corte di Giustizia Europea è chiamata a pronunciarsi sul ricorso per infrazione portato avanti dalla Commissione Europea contro la Repubblica Italiana, cui veniva contestato di essere “venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado” per aver “escluso qualunque responsabilità dello Stato Italiano per i danni arrecati ai singoli […] qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove”.
Come si nota il rilievo posto dalla Commissione è totalmente ripreso dalle considerazioni della Corte di Giustizia nella sentenza Traghetti del Mediterraneo. Questa volta però il contesto è diverso: non ci si trova di fronte ad un rinvio pregiudiziale effettuato dal giudice nazionale, ma ad una vera e propria controversia tra la Commissione e lo Stato Italiano. La Commissione critica inoltre la giurisprudenza della suprema Corte di cassazione che ha interpretato la nozione di «colpa grave» in termini troppo restrittivi e dunque in contrasto con i principi affermatisi nella giurisprudenza della Corte Europea, perché determina una limitazione della responsabilità dello Stato italiano, anche in casi diversi dall’interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e prove.
I rilievi della Commissione sono accolti dalla Corte Europea: “escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo, e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado.”
Va chiarito che la pronuncia in esame si incardina in seno ad una procedura di infrazione, suddivisa in due fasi: la prima parte (di cui si sta parlando) si conclude con una sentenza di mero accertamento dell’esistenza o meno della violazione da parte del paese; se la Corte riconosce la violazione del diritto comunitario, quest’ultimo ha l’obbligo di porre immediatamente fine alla violazione accertata, nei modi che esso ritiene necessari. Nel caso in cui lo Stato ignori la pronuncia del giudice, la Commissione può sollecitare con un lettera di messa in mora, per poi dar corso ad una ulteriore procedura di infrazione e ad un nuovo giudizio innanzi alla stessa Corte per l’esecuzione della sentenza, chiedendo il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità.
L’Italia ha già ricevuto una lettera di messa in mora dalla Commissione Europea che però, fortunatamente, non ha ancora dato il via alla seconda fase della procedura di infrazione, quella che la renderebbe esecutiva.
In breve- Spesso le proposte di modifica della normativa vengono motivate con “ce lo chiede l’Europa”. Ed in effetti la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta più volte sollecitando l’intervento del Governo italiano. Nel 2006, sentenza Traghetti del Mediterraneo, la Corte censura la legge italiana in quanto esclude la responsabilità in relazione all’attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove rese nell’ambito dell’attività giudiziaria e limita la responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice. L’Italia non ha modificato la legge, e nel 2011 la Corte di Giustizia è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi, stavolta a seguito della procedura di infrazione incardinata dalla Commissione. Ancora una volta si lamenta da un lato l’esclusione di responsabilità determinata dalla legge vigente e dall’altro l’interpretazione molto restrittiva della legge posta in essere dalla Corte di Cassazione italiana. E ancora una volta l’Italia viene condannata.
Le modifiche proposte dal Governo
Il disegno di legge riscrive completamente il comma 3 dell’articolo 2 della legge, quello che conteneva la definizione di colpa grave. Ecco il nuovo testo:
Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove.
Prima, come visto, la legge tipizzava quattro casi di colpa grave, che potevano rilevare solo se determinati da “negligenza inescusabile”. La valutazione dunque, doveva essere fatta in maniera “soggettiva” in quanto la colpa del magistrato si presenti come inspiegabile, impossibile da giustificare perché appunto dovuta a negligenza inescusabile. Come si può notare questa locuzione scompare, il governo ha quindi inteso inserire una valutazione “oggettiva” della violazione manifesta di legge, tale da renderla rilevante a prescindere dal comportamento soggettivo del giudice (e cioè dalla sua negligenza inescusabile). Ciò dovrebbe consentire di superare l’interpretazione restrittiva operata dalla Corte di cassazione, che come visto era stata criticata in sede europea.
Anche il comma 2 viene modificato. Si tratta dell’articolo che conteneva la “clausola di salvaguardia”, il principio per cui non può mai dare luogo a responsabilità l’attività interpretativa del giudice. In realtà il principio rimane, ma è molto temperato:
Fermo quanto previsto dal comma 3 e salvi i casi di dolo, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
Si nota che quindi nei casi previsti dal nuovo comma 3, e di dolo, l’attività interpretativa può eccome dar luogo a richiesta di risarcimento del danno. Anche qui la disposizione cerca di andare incontro ai rilievi mossi dalla giurisprudenza della Corte Europea.
Viene poi inserito un nuovo comma (il 3 bis), ricopiato quasi interamente da uno dei punti della sentenza in cui si spiega quali sono i presupposti affinché sussista la violazione manifesta da cui dipende l’eventuale richiesta di risarcimento:
Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione europea si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto della posizione adottata eventualmente da un’istituzione dell’Unione europea, nonché della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Altra modifica molto importante è l’abrogazione dell’articolo 5 della normativa attuale, quello relativo al filtro di ammissibilità. Nella relazione introduttiva al disegno di legge il governo subordina questa scelta “all’esigenza di rendere più immediata ed effettiva la responsabilità del magistrato in chiave di semplificazione”; ma appare strano che, in un momento in cui la ratio di qualunque intervento in materia processuale è volto a ridurre i tempi del contenzioso, il governo elimini una norma che cerca di garantire proprio questo.
Sembra doveroso ricordare che così facendo un imputato potrebbe citare per danni un magistrato già durante il primo grado di giudizio; avrebbe torto, in quanto la legge prevede che l’azione di responsabilità possa essere esperita solo al termine del processo. Ma a quel punto il processo principale che fine fa? Il giudice che dovrà rendere la decisione potrà ancora farlo in maniera serena, se contemporaneamente è impegnato a difendersi da un’azione di responsabilità proprio da una delle parti che potrebbe scontentare in virtù della sua decisione finale?
L’ultima modifica è fatta all’articolo 8, che regola l’eventuale azione di rivalsa che può esercitare lo Stato nei confronti del magistrato ritenuto responsabile. Ferma restando l’inalterata natura indiretta della responsabilità, il DDL interviene in tre punti
a)L’azione di rivalsa da eventuale diventa obbligatoria.
b)Si aumenta aumento il tempo utile per la domanda, che passa da 1 a tre anni.
c) Viene incrementata la misura della rivalsa: prima lo Stato poteva rivalersi al massimo fino ad un terzo dello stipendio annuale del magistrato, ora è previsto che si possa arrivare fino alla metà.
In breve- Il DDL del Governo interviene in maniera molto incisiva: viene riscritto il concetto di colpa grave, la valutazione del comportamento lesivo diventa “oggettiva” nel senso che basta la violazione manifesta di legge, tale da renderla rilevante a prescindere dal comportamento soggettivo del giudice (e cioè dalla sua negligenza inescusabile). Viene inserita la responsabilità per travisamento del fatto e delle prove, e temperata la cosiddetta “clausola di salvaguardia” non più invocabile in caso di colpa grave o dolo. Il governo ha scelto di rendere l’azione di rivalsa dello Stato obbligatoria e ha eliminato il filtro di ammissibilità previsto dalla vecchia legge.
Per la formulazione del “doppio articolo” ringrazio Francesco Costa del Post, che mi ha dato l’idea in un suo articolo molto lungo sulle elezioni di metà mandato del Congresso Americano.
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