Giustizia
Jihad, porti e sceicchi: le assurde bufale sui migranti
«Chiudiamo i porti», tuona il ministro dell’Interno Marco Minniti. Seguito a ruota da un manipolo di “esperti” che approvano: «Si può fare!». Il diritto internazionale lo prevede, sostengono. «Non chiudiamo nessun porto, lo dico da responsabile della Guardia Costiera e delle operazioni di soccorso», risponde però a distanza il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. La titolare della Difesa Roberta Pinotti glissa sull’argomento. Al vertice europeo con i ministri dell’Interno di Francia e Germania l’intesa è totale. Non è chiaro su cosa, tranne che sul dare più soldi al Governo d’Accordo nazionale libico.
È l’immigrazione, nemmeno a dirlo, il tema che tiene banco in questa estate del 2017, accompagnato da un ampio corredo di polemiche e negoziazioni, annunci e smentite, inchieste giudiziarie e soprattutto pittoresche bufale.
Può o non può l’Italia negare l’accesso a navi straniere che hanno soccorso migranti in mare? «Sì, la Convenzione di Montego Bay del 1982 prevede come la nave che entra nel porto o attraversa le acque territoriali non debba arrecare pregiudizio allo Stato costiero. È evidente che le imbarcazioni che potenzialmente favoriscono l’immigrazione sconsiderata possono arrecarlo». A parlare è Anna Lucia Valvo, docente universitaria e avvocata, intervistata dal Giornale di Sicilia.
Parola di Prof
Docente ordinaria di Diritto dell’Unione europea all’Università “Kore” di Enna e allieva di Augusto Sinagra, fra i fondatori di Alleanza Nazionale e già massone iscritto alla P2 e avvocato di Licio Gelli e di due colonnelli argentini del regime di Videla, la prof che difende Minniti è una studiosa dal curriculum sterminato e pure consulente dell’ambasciata turca in Italia. Ma soprattutto dal 1999 lavora come docente presso l’Istituto Superiore di Polizia, le Scuole di perfezionamento del Viminale, i corsi di formazione per vice commissari, e dal 2015 è docente aggiunto alla Scuola internazionale di alta formazione per la prevenzione e il contrasto del crimine. Un ventaglio di collaborazioni che ricadono tutte nell’orbita del ministero dell’Interno. Quello di Minniti.
Sui porti ha ragione Valvo? Non esattamente. Primo perché le convenzioni internazionali sulla cosiddetta “legge del mare” sono quattro (e non una soltanto) con tanto di appendici, modifiche successive, piani attuativi e linee guida. E vanno lette tutte insieme. Secondo perché la Convenzione di Montego Bay delle Nazioni Unite citata dalla Valvo dice altro: l’articolo 19 – che definisce la nozione di “passaggio inoffensivo” – riconosce come in grado di arrecare danno alla pace, e alla sicurezza di uno Stato, il passaggio di una nave straniera che stia “caricando o scaricando persone (materiali, valuta etc.) in violazione delle leggi o dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o d’immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Tradotto: chi sta commettendo un reato non può di chiedere di usare i nostri porti per commetterlo.
Le navi private straniere e quelle delle ong violano la legge? No, perché già oggi agiscono sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana, del Maritime Rescue Coordination Centre di Roma che è in contatto costante con una sala del Viminale per decidere il porto di destinazione – nonostante Minniti continui a fingere di non saperlo, come fatto di recente durante un convegno milanese al Palazzo delle Stelline. Condanne e sentenze contro le ong, infatti, non ce ne sono mai state. Processi uno soltanto: quello agli ufficiali della nave Cap Anamur che nel 2004 salvò la vita a 37 sudanesi alla deriva e finì all’interno di un contenzioso diplomatico fra Italia, Malta e Germania. Esito? Tutti assolti. Per un motivo banale. Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in Italia esiste ma “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare” (articolo 54 del codice penale) e “non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia” (articolo 12.2 della Bossi-Fini). Si potrà obiettare che questi sono noiosi dettagli giuridici. Vero. Altrettanto vero che numerosi Stati, all’occasione, violano il diritto internazionale perché la sovranità, quando fa comodo, esiste. Quindi sul piano pratico l’Italia i porti li può chiudere, se vuole, ma non in nome delle convenzioni Onu e sicuramente non senza incorrere in conseguenze.
L’ossessione per il binomio immigrazione-terrorismo
È proprio nelle settimane in cui (ri)prende vigore il dibattito sull’immigrazione e il suo legame con la sicurezza del Paese – con la polizia di Ragusa che fa trapelare di aver espulso 25 musulmani radicalizzati negli ultimi due anni da Pozzallo e la stampa internazionale che si domanda come mai l’Italia sia stata risparmiata dagli attentati di questi anni – che un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo fa rumore.
L’operazione denominata “Scorpion Fish”, scattata a fine maggio, sembra portare risultati eclatanti, in apparenza: la scoperta di una rete che contrabbanda uomini e tabacchi lavorati esteri (TLE) fra la Tunisia, le saline di Marsala e le coste del trapanese. Nelle 141 pagine di decreto di fermo stilate dalla Dda di Palermo gli indizi del contrabbando ci sono tutti. Ma i sostituti procuratori siciliani Claudia Ferrari, Federica La Chioma e Calogero Ferrara, non si accontentano. E aprono a una possibile “rotta” del terrorismo islamico verso l’Italia. Su cui ha insistito lo stesso Procuratore Capo di Palermo, Francesco Lo Voi, durante la conferenza stampa svoltasi nel suo ufficio personale. A inviti, come sempre più spesso avviene da quelle parti, dove non tutti i cronisti dell’isola possono accedere ma solo una manciata di eletti che il Procuratore Lo Voi gradisce rendere partecipi.
Cosa c’è di così scottante in quelle carte? Risposta: un fantomatico “sceicco non meglio identificato” dalle autorità italiane, che si occupa di organizzare e garantire passaggi illegali anche per persone sospette di contiguità con le “formazioni terroristiche o di matrice jihadista”. Ancora: un giuramento su Maometto, fra un uomo e una donna, riportato dentro a messaggio su whatsapp che recita: «Giura su Mohamed che non mi freghi questi soldi». Questa la frase che fa drizzare le orecchie agli inquirenti. I quali appuntano in una nota inquietante: «Possibili contiguità con ambienti radicalizzati». Così che la Dda non esita a definire il sodalizio criminoso come «una seria minaccia alla sicurezza nazionale».
Lo strano caso dell’Anonima Sceicchi
I capi della banda sono due: Jabranne Ben Cheick, 28enne tunisino, che è già in carcere a Solliciano (Firenze) da ottobre 2016 per una storiaccia di droga e che a marzo si è preso una condanna in primo grado a sei anni. Per mesi è riuscito a comunicare da dietro le sbarre grazie alla moglie: una 55enne fiorentina oggi ai domiciliari. Il numero due si chiama Kamel Ben Cheikh. È il padre di Jabranne, oltre ad essere il più anziano fra i tunisini dell’organizzazione. È ancora a piede libero perché la Procura lo definisce “non compiutamente identificato”. Si tratta dell’uomo che «in Tunisia raccoglieva i soldi e la gente da far venire. Il padre comandava tutto e Jabranne gli era molto legato». Ce lo definisce così al telefono Simone Ballantini, il testimone chiave dell’impianto accusatorio, che ha fornito elementi utili agli investigatori durante l’interrogatorio del 30 marzo scorso. Terrorismo? «Per me gli interessavano solo i soldi» risponde.
Dov’è dunque lo “sceicco tunisino” e cosa c’entra con la famiglia Ben Cheikh? Viene nominato in una sola intercettazione. È una telefonata di gennaio, parafrasata dalla Procura con tanto di errori grammaticali: “L’uomo chiede se lo sceicco con cui aveva parlato e ha detto che dovevo partire alle 8; Amine risponde che è un bugiardo, parla e basta”. Lo scambio è fra un membro della banda italo-tunisna di nome Amine Ben Alaya e un potenziale migrante in nord Africa. Abbiamo qui un primo, banale, elemento che non torna. Uno dei membri della banda definisce lo sceicco un “bugiardo che parla e basta”. Forse è solo un giovane che manca di rispetto all’autorità.
C’è qualcos’altro che non torna: il cognome dei boss, “Ben Cheikh”, uno tra i più diffusi in Tunisia, si pronuncia proprio “Sheykh”. Anzi: una volta traslitterato sono la stessa parola con identica pronuncia. Quale oscuro significato avrà mai il termine “Sheykh” in arabo? Sarà una coincidenza ma significa proprio “sceicco”. Non solo: «Significa anche “vecchio” o “saggio” e può essere usato in ambito famigliare e quotidiano» spiega Lorenzo Dechlich, esperto di mondo islamico contemporaneo e traduttore dall’arabo. «Certo – prosegue Dechlich – anche nei gruppi jihadisti esistono gli “sheykh”: Osama Bin Laden veniva definito tale perché non aveva nessun titolo più importante da esibire, essendo lui un ingegnere. Ma l’espressione ha diversi significati: viene usata nel sufismo per indicare i capi delle confraternite, quindi in quella corrente dell’Islam mistico che nulla ha a vedere con il jihadismo ma che anzi ne è un’acerrima nemica. Quando evochiamo la figura dello sceicco pensiamo sempre ai petrolieri del Golfo. In realtà è questo un titolo onorifico che sin da tempi antichi indica i capi delle famiglie tribali».
A scavare ancora un po’ si scopre dell’altro: come ad esempio che Kamel Ben Cheikh nutre diverse simpatie politiche in giro per il mondo. Tutte molto confuse e che hanno ben poco a che spartire con Isis o al-Qaeda. Sul suo profilo Facebook – solo considerando post dal contenuto para-politico e prima che ci bloccasse a richiesta d’intervista – campeggiano in serie: una dedica a Ernesto Che Guevara, in cui letteralmente si dice che ha lottato tutta la vita per gli oppressi prima che un pastore lo facesse catturare facendo la spia; alcuni post sui danni provocati dagli israeliani a Gaza; un’altra foto sempre del “Che”, al momento della cattura; un’immagine di copertina che ritrae i militari della Guardia Nazionale a bordo di una camionetta; e infine una scatto di repertorio di Saddam Hussein – l’ex dittatore dell’Iraq. Insomma, Kamel Ben Cheikh non ha esattamente il profilo social del predicatore che fa proselitismo per conto di Ansar al-Shari’a o chissà quale organizzazione terroristica.
Traduzioni sballate
Andiamo avanti. Perché che a un certo punto dell’indagine vi siano stati dei problemi di traduzione – tematica sentita nelle procure italiane vista la scarsità di interpreti, la mancanza di fondi per pagarli e le minacce che subiscono – diventa palese: interi passaggi delle intercettazioni sono trascritti in un italiano incomprensibile. Altri riportano espressioni arabe che, tradotte alla lettera, sono fuorvianti. Per esempio una telefonata intercettata a marzo alle 10:49 del mattino, subito dopo che la Guardia di Finanza ha sequestrato un gommone della banda, con a bordo 103 kg di sigarette di contrabbando.
Le Fiamme Gialle non hanno tuttavia trovato i 14 migranti trafficati quella stessa notte, con lo stesso gommone. Perché pochi minuti prima gli africani sono stati nascosti nei pressi della cosiddetta Isola Grande. Se v’è stato il tempo per occultare i migranti, cosa è andato storto? Perché la banda si è fatta pizzicare? È andato storto che 14 persone, in una notte con forte vento e condizioni meteo sfavorevoli, sono troppe per il natante. Pesano troppo e lo hanno rallentato. Dovevano raggiungere la Sicilia verso le 3-4 del mattino, con l’oscurità, sono arrivati intorno alle 7. Con il sole che è sorto già da un pezzo e rendendosi visibili alla Guardia di Finanza.
Due tunisini di nome Akram e Dabus discutono al telefono di questo “fattaccio”. Usano toni volgari e imprecano contro una donna, una loro referente in patria, che ha voluto caricare il gommone con troppe persone per guadagnare più soldi. Questo lo scambio:
«Giuro. Nessuna soluzione. Ho detto alla donna di mettere poca gente, solo nove quella testa di cazzo, puttana»
«Chiudi il tuo telefono capiscimi, con lei si fa un lavoro di merda»
«Capisco e scoperò sua mamma»
«Anche a lei non solo sua mamma»
«Sì»
«È una puttana amico mio, lei ama i soldi e chiudiamo i telefoni e non ci saranno soldi per lei»
«Io ora odio lei e so come scopare sua mamma»
Come si può intuire, l’espressione “chiudere i telefoni” detta così ha ben poco senso ma può significare tranciare i contatti con una persona che li ha inguaiati, in questo caso la donna tunisina per la quale «non ci saranno più soldi per lei». Eppure viene tradotta in questo modo. Ancora più grave e fallace è l’uso di un’altra traduzione alla lettera: “scoparsi lei” e “scopare sua madre”. Che in tunisino suona Nikelha omha. Un’espressione figurata e dispregiativa che però non fa riferimento a rapporti o violenze sessuali. Piuttosto è un modo di dire, molto simile all’italiano “ti rovino” oppure “ti fotto” – non a caso.
Le 141 pagine della Procura sono piene di scivoloni e fraintendimenti linguistici, alcuni ininfluenti, altri meno. Come il soprannome di uno degli scafisti interni all’organizzazione: tale Nabil Ben Ahmed, nato nel 1979 e residente a Marsala, che viene indicato con quello che sarebbe il suo nomignolo: “Angelo l’italiano”. Strano questo nickname: perché l’unico caso in cui compare “Angelo l’italiano” è ancora una volta nella telefonata del 17 marzo. In un passaggio dove Akram dice al suo sodale: «Hanno preso Angelo l’italiano. Hai capito o no?». E chi è stato catturato quella mattina dalla Guardia di Finanza? Lo scafista Nabil Ben Ahmed alias “Angelo l’italiano” per caso? No. Ma un uomo che di cognome fa “Allegra” e di nome proprio “Angelo”. Che guarda caso è anche italiano. Non è che “Angelo l’italiano” arrestato quella mattina altri non sia che Angelo Allegra? – uno dei due fratelli membri del sodalizio e che provvedeva alla gestione, al rifornimento nonché al recupero del gommone “Tempest 770” usato per le traversate. Mistero.
L’ultimo indizio che la procura considera un elemento per la “pista” del terrorismo islamico è il giuramento nel nome di “Maometto” che Jabranne Ben Cheikh fa pronunciare alla sua compagna italiana. Siamo fra il 6 e il 7 settembre del 2016 – poco più di un mese prima che il 28enne tunisino finisca in manette per droga. La conversazione questa volta è uno scambio di messaggi su whatsapp. In cui l’uomo usa toni concitati e violenti per impartire ordini alla donna. Prima le dice di sbrigarsi a prendere 10mila euro in contanti da suo fratello, Mounir Ben Cheikh, e poi di volare da Pisa verso Trapani. Con i soldi avrebbero comprato un gommone – intestato alla 55enne – da usare per i traffici. Alla fine chat Jabranne sbotta in un italiano sgrammaticato: «Giura con Mohamed non mi fregi con questi soldi6 xche mi servi ergenti». La donna risponde: «Giuro su Mohamed che è la mia vita io non ti tocco niente». E poco dopo aggiunge: «Ti prego goditi questa giornata che hai comprato il gommone e i tuoi soldi che ti sei guadagnato con sacrificio e paura li hai speso x una giusta causa».
Una “giusta causa” che “anche alla luce degli altri elementi indiziari acquisiti” – lasciano intendere i magistrati siciliani – potrebbe fare riferimento alla guerra santa contro gli infedeli. Per la Dda è questo il sospetto. Ma l’avvocato Carmine D’Agostino, che ha assunto la difesa di Ben Cheikh, ci fornisce un’altra versione: «Qui (a Firenze dove il giovane viveva ed è oggi in carcere, ndr) questa è diventata l’indagine del momento, ma si tratta di una vicenda ben più ridotta. Si sta costruendo al personaggio un’immagine più grande di quello che è. Il giuramento non è su Maometto, ma su Mohamed, il figlio che volevano avere. Si tratta di questioni private». Un figlio quindi, non il profeta dell’Islam.
La debolezze cominciano a essere un po’ troppe per la “pista jihadista” che mette a repentaglio “la sicurezza nazionale”. E non è chiaro perché, nella totale assenza di prove e con indizi così precari, la Procura di Palermo abbia deciso di “pubblicizzare” l’inchiesta “Scorpion Fish” puntando molto – almeno a livello mediatico – sul terrorismo. Invece che sui numerosi elementi e riscontri più che provati del contrabbando di migranti e sigarette. Parliamo di qualche decina di migranti e 103 kg di sigarette trafficate in un anno. Del resto in quella penisola della Tunisia che si affaccia verso l’Italia – il governatorato di Nebeul – i piccoli traffici illeciti non sono affatto un’anomalia: secondo l’Osservatorio del Maghreb sulle Migrazionio da lì sono partiti circa il 27 per cento degli 820 migranti tunisini che hanno tentato di raggiungere il Bel Paese in maniera illegale nel 2016. Numeri ridicoli rispetto ai flussi dalla Libia. Le stesse forze di polizia e guardia navale tunisine reprimono con costanza questi fenomeni: ancora nella scorsa primavera sono stati effettuati diversi arresti contro l’immigrazione illegale, il contrabbando di reperti archeologici e piccole quantità di valuta e carburante.
Le procure siciliane non sono nuove a esagerazioni o a tentavi di fare il “colpo grosso” quando si tratta di immigrazione o jihad. È ancora nell’inchiesta “Scorpion Fish” che troviamo dei dati completamene sballati: prima di andare a trattare i presunti reati, infatti, i magistrati inquadrano il fenomeno migratorio in un contesto storico. Nel paragrafo dedicato alle “osservazioni generali” scrivono che «nel periodo 1 dicembre 2013 – 31 ottobre 2014» e nel corso della cosiddetta «operazione Mare Nostrum sono stati tratti in salvo circa 207mila migranti». Premesso che Mare Nostrum non c’entra nulla con eventuali traffici illeciti dalla Tunisia, la cifra indicata dalla Dda di Palermo non trova riscontri ufficiali. Secondo il ministero della Difesa il numero reale dei migranti assistiti da Mare Nostrum è di 156mila, di cui circa 42mila con il supporto di navi private e commerciali. Non c’è mai stato un solo anno, nell’intera storia d’Italia, in cui via Mediterraneo centrale siano arrivate 207mila persone.
Di queste scivolose saponette è piena la storia recente delle cronache giudiziarie in Sicilia: su Gli Stati Generali abbiamo già raccontato la vicenda della Procura di Catania che, assieme agli investigatori della Digos ragusana, scambiò dei video e meme satirici sul telefono di un giovane siriano – oltre al messaggio su whatsapp che recitava “Non c’è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta” – per le prove inoppugnabili della sua appartenenza a Isis. Un impianto accusatorio che è stato prima fatto a brandelli da vari giornalisti e infine anche in tribunale. Che ha riconosciuto l’innocenza del ragazzo siriano.
Non è solo a Catania che si spara troppo in alto. La stessa Palermo non è immune. È ancora in corso il processo nato dall’operazione “Glauco II”, in quello che oramai tutti chiamano “il caso Mered”. Quello che da oltre un anno vede la detenzione del presunto “Generale” eritreo Medhanie Yehdego Mered nel carcere Pagliarelli di Palermo. L’uomo è considerato fra i più importanti boss del traffico di migranti lungo le rotte fra il Sahara e la Libia ed è stato consegnato alla giustizia italiana nel giugno 2016 dopo un’operazione congiunta con le forze britanniche che lo hanno arrestato in Sudan.
Un clamoroso equivoco
Tutto il processo sembrerebbe reggersi su uno scambio di persona, come ha sostenuto per primo il Guardian pubblicando foto dei due uomini con tratti somatici e documenti d’identità diversi. Il quotidiano britannico è stato seguito a ruota da diverse testate italiane e internazionali che hanno arricchito il “giallo” con nuovi elementi. Da ultimo il Wall Street Journal che sostiene di aver intervistato il vero Mered su Facebook. Libero in Uganda. Tre settimane fa è arrivata in aula anche la testimonianza di Carmine Mosca, all’epoca dei fatti vice dirigente della Mobile di Palermo e che partecipò a quell’operazione. Il poliziotto ha dichiarato: «Io ricordo che ebbi delle perplessità, perché rispetto alla foto che avevamo acquisito attraverso Facebook evidentemente la persona che ci veniva consegnata non aveva quelle fattezze fisiche».
L’agente ha spiegato di essersi convinto della bontà di quell’arresto solo una volta tornato in Italia. Quando una delle interpreti, che aveva lavorato sulle intercettazioni, lo ha tranquillizzato: la voce ascoltata è la stessa. L’interprete in questione ha chiarito meglio la vicenda durante un’udienza che l’ha vista sul banco dei testimoni: «Nel 2016 mi sono state sottoposte altre tre telefonate e mi è stato chiesto se riconoscevo la voce con quella ascoltata nel 2014 e secondo me c’era similarità, potevano essere la stessa voce», ha spiegato. A domanda precisa della difesa ha dovuto specificare che quel riconoscimento vocale, avvenuto a distanza di due anni, è stato effettuato a orecchio senza nessun altro tipo di riscontro. Non esattamente quella che si definisce una “pistola fumante”. Chi è uno dei procuratori che indaga sul “Generale” Mered? Calogero Ferrara, che tutti in Sicilia chiamano affettuosamente “Gery”. Lo stesso che indaga sullo “sceicco”.
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