Geopolitica
Le bombe elettorali di Erdogan che non aiutano nella guerra all’Isis
Quando a Kobane, al confine tra Siria e Turchia, c’era l’assedio dell’Isis, l’esercito di Ankara non muoveva un dito. L’unica attenzione era rivolta a eventuali sconfinamenti degli islamisti, ma i carri armati non hanno sparato un solo colpo. Poi è trascorso qualche mese e le cose sono cambiate, anche politicamente. Recep Tayyip Erdoğan non è più il Sultano incontrastato: gli elettori hanno concesso una vittoria zoppa al suo partito, l’Akp, tanto che ancora non è stato stipulato un accordo di governo.
Così il presidente turco ha compreso, con astuzia, che era il caso di sfruttare ancora di più l’Isis. Dopo aver usato gli islamisti in chiave anti-curda, tanto da aver tacitamente concesso libertà d’azione ai combattenti di Abu Bakr al-Baghdadi, ha premuto il piede sull’acceleratore: con la motivazione di fare la guerra al Califfo, ha cominciato a bombardare le postazioni dei combattenti curdi, in particolare quelli del Pkk. Sì, proprio quei curdi che fino a qualche settimana fa l’Occidente celebrava come l’ultimo baluardo della libertà, sia in Iraq che in Siria, contro il mostro dello Stato islamico. Il tutto con la benedizione del presidente statunitense, Barack Obama, che in quel territorio rischia di incappare nell’ennesimo errore storico.
Erdoğan ha insomma colto un’occasione, soprattutto in un’ottica di politica interna: le bombe hanno un colore elettorale, anche perché in Turchia lo spettro del ritorno al voto inizia a prendere forma. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) del presidente non sembra intenzionato a intavolare estenuanti trattative per raggiungere un’intesa e formare una maggioranza in Parlamento. Tutt’altro. Nei fatti il dialogo è un pro-forma nell’attesa di annunciare il definitiva ‘nulla di fatto’, considerando anche che né i kemalisti (principale partito di opposizione) né i Lupi Grigi (la destra nazionalista) bramano un’alleanza con il nemico numero uno, il Sultano Erdoğan, che nella fattispecie assume i tratti del suo fedelissimo Ahmet Davutoğlu, premier incaricato.
Dopo il naufragio della pseudo-mediazione, sarà più facile, anzi doveroso, annunciare nuove elezioni. In questo caso il presidente può far leva su due aspetti di campagna elettorale: la necessità di una stabilità politica e il sentimento nazionalista di un Paese in guerra. Ufficialmente si tratta di un conflitto contro la ‘minaccia’ dell’Isis, nella realtà si tratta di un’operazione su larga scala contro i curdi, colpevoli di aver conquistato qualche posizione nella lotta agli islamisti. Non a caso la retorica è tutta concentrata con il partito progressista filo-curdo, Hdp, di Selahattin Demirtas, il cui consenso in crescita ha scompaginato il quadro politico turco.
E mentre Recep Tayyip Erdoğan usa la geopolitica per interessi nazionali, ancora una volta l’Europa e gli Stati Uniti sono spettatori, complici, di un errore potenzialmente devastante. La Turchia non ha intenzione di combattere il gruppo Stato islamico, ma vuole assestare un duro colpo ai nemici storici: i curdi. Proprio quelli che hanno rappresentato un valido alleato sul campo per la coalizione che sta combattendo l’Isis. Il rischio che si palesa è da incubo: un’avanzata jihadista senza più argini, né in Siria né in Iraq.
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