Geopolitica

Afghanistan, ecco come è fallita la missione internazionale

3 Febbraio 2015

«Con il mandato ISAF non finiranno né la missione internazionale né la presenza della NATO in Afghanistan. Il ritiro è piuttosto un disimpegno graduale, non motivato dal successo di cui si è sentito parlare nei giorni scorsi. Al contrario: è il segnale che la situazione è disperata». Questo il parere di Thomas Rutting, condirettore e fondatore dell’Afghan Analyst Network, intervistato dal quotidiano tedesco Taz. Difficile dargli torto, guardando i numeri,  anche se sia i vertici militari Usa che i talebani hanno cantato vittoria.

«Abbiamo condotto il popolo afgano fuori dal buio della disperazione, dando loro speranza per il futuro», ha dichiarato il generale Usa John Campbell, comandante dell’International Security Assistance Force (ISAF), missione Nato di supporto al governo afgano, su mandato Onu, che dal dicembre 2001 – dopo l’inizio delle operazioni militari a ottobre 2001 – è arrivata a impegnare fino a 140mila soldati, provenienti da 50 paesi differenti, Italia compresa.

La bandiera dell’ISAF è stata ammainata il 28 dicembre scorso, a Kabul, con una cerimonia ufficiale. Viene rimpiazzata dalla Resolute Support Mission (RSM), che arriverà a contare circa 13mila militari, con funzioni di supporto e addestramento delle forze speciali afgane (circa 350mila effettivi), che dal 1 gennaio 2015 hanno assunto ufficialmente la responsabilità della sicurezza del Paese. Al contingente RSM vanno comunque aggiunti gli operativi d’intelligence, una divisione specializzata nell’anti-terrorismo e tutta una serie di contractors. Fine missione prevista per dicembre 2016, ma l’attuale presidente afgani Ashraf Ghani ha già lasciato intuire che verrà chiesta una proroga.

Dall’altra parte, Zabihullah Mujahid, portavoce della shura (consultazione) dei talebani di Quetta, quella più vicina al mullah Omar, ha commentato la cerimonia con un punto di vista diametralmente opposto, definendo «un trionfo di portata storica» quello che viene raccontato a fini di propaganda come una rotta degli eserciti stranieri e invasori. Una fredda lettura dei numeri, in questi casi, aiuta. E non sono numeri buoni.

Per cominciare le vittime civili, che sempre dovrebbero essere il parametro di riferimento per ragionare sulle condizioni di un Paese. Secondo il rapporto Unama (missione Onu in Afghanistan), il 2014 è stato un anno record: fino a giugno 2014, sono 1.564 i civili uccisi, con un incremento del 24 percento rispetto allo stesso periodo del 2013. Il 33 percento delle vittime sono bambini, il 20 percento donne. A questo dato drammatico, si aggiunge quello delle vittime militari, intese come perdite di vite umane della coalizione, che sono 3.500, e dell’esercito afgano, che sono almeno 6.500.

Un bagno di sangue che avrebbe dovuto rafforzare la sicurezza della vita degli afgani, ma non è andata così. E il futuro non promette nulla di buono. Basta pensare che poche ore dopo la cerimonia del passaggio di consegne di Camp Bastion dalle truppe britanniche a quelle afgane, la base è rimasta sotto assedio per un paio di giorni sotto il tiro dei talebani. Che sono forti e che, seppur con visioni strategiche non necessariamente identiche, a primavera potrebbero scatenare una delle offensive che non sono mai mancate in questi anni. Le correnti all’interno dello schieramento dei talebani sono note: la storica shura di Quetta risente del calo di leadership del mullah Omar, mentre la shura di Peshawar e quella di Miran Shah sono più determinate e agguerrite.  Di sicuro la presenza di militari stranieri resta elemento che unisce i talebani.

L’ex presidente Karzai, l’uomo dell’Occidente fin dal 2001, in realtà dal 2009 ha consumato una rottura diplomatica con l’amministrazione Obama, rea di non averlo difeso dalle accuse sempre più velenose di corruzione. Negli anni successivi, Karzai ha guardato prima al Qatar come padrino internazionale, poi ad Arabia Saudita e Cina. Soprattutto ha tentato di trattare con i talebani. Quale sarà la linea del suo successore, Ashraf Ghani? Probabilmente la stessa, visto il recente viaggio diplomatico di quest’ultimo a Pechino, come spiega bene l’ottima analisi di Camelia Entekhabifard su Le Monde Diplomatique.

 

Il trailer di Restrepo – Inferno in Afghanistan, il documentario di Tim Hetherington, morto in Libia nel 2011, sull’avamposto della valle di Korengal, dove ha passato un anno con un’unità delle truppe Usa

 

La linea Ghani, appunto, è tutta da verificare. Un altro dato di certezza, nell’ambito di un bilancio della missione ISAF, è che non è migliorata la situazione politica dell’Afghanistan. In larga parte dei seggi, nell’aprile 2014, non si è potuto votare. I due candidati, Ghani e Abdullah Abdullah, hanno dato vita a un braccio di ferro che ha paralizzato il Paese dopo l’esito del ballottaggio a giugno, che si è risolto solo a settembre con la nomina a presidente di Ghani e l’istituzione di un ruolo simile a quello del primo ministro per Abdullah. Un intricato gioco di potere per accontentare tutti che ha reso necessario aspettare più di quattro mesi per la nomina di un governo.

Non è neanche l’economia che può essere messa a bilancio positivo della missione in Afghanistan. «Il Pil del Paese, dal 2001, è quintuplicato, ma non certo per la popolazione civile. Nel 2010 è iniziata un’emorragia di denaro (complice l’avvicinarsi del ritiro delle truppe straniere) che ha portato le 10mila persone più ricche dell’Afghanistan a portare i loro soldi all’estero. Si parla di almeno 4 miliardi di dollari», racconta ancora Rutting.

La Banca Mondiale sostiene che solo una cifra tra il 15 e il 25 percento dei fondi per lo sviluppo stanziati in questi anni per l’Afghanistan dalla comunità internazionale sono arrivate alla popolazione, mentre il resto è svanito nei meandri della corruzione. Per Trasparency International, l’Afghanistan occupa il 172° posto nella classifica dei 175 paesi più corrotti del mondo. O in spese militari, visto che il donatore più importante, gli Stati Uniti d’America, hanno donato quasi 700 miliardi di dollari, ma con un rapporto di 1 a 16 tra spese civili e militari. In un contesto dove, secondo l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, sono diventati oltre 580mila gli sfollati interni, 106mila dei quali solo quest’anno.

In un campo le performance economiche dell’Afghanistan sono in crescita: ma si tratta del mercato dell’oppio. Un dato anche qui: a metà degli anni Ottanta, nel Paese veniva prodotto il 20 percento del papavero da oppio del mondo, oggi siamo all’80 percento. Un bell’articolo di A.J. Vincens, pubblicato da Mother Jones, con interviste a dirigenti dell’Autorità Anti Droga Usa, spiega che gli 8 miliardi di dollari investiti dagli Usa non hanno prodotto alcun risultato, anzi secondo l’Ispettorato Generale della Ricostruzione in Afghanistan non è più neanche una priorità, nonostante il 2014 sia stato un anno record per il raccolto.

 

campo di papavero da oppio
Il raccolto di papavero da oppio

 

Ultimo aspetto: la libertà delle donne, i diritti civili. Anche da questo punto di vista il bilancio è negativo. Secondo il Rapporto di Human Rights Watch, la libertà di espressione è sotto attacco: nel 2014 sono stati 40 gli episodi di violenza che hanno visto coinvolti operatori dell’informazione, il doppio del 2013. Rispetto alla condizione femminile, la situazione resta drammatica. A fronte di alcune norme introdotte nell’ordinamento afgano, restano gravi le violazioni. Un esempio su tutti quello di Sahar Gul, venduta per 5mila dollari dai suoi genitori a soli 12 anni al marito, segregata in cantina e costretta a prostituirsi dai genitori di lui per cinque mesi, aveva ottenuto la condanna dei suoi aguzzini a dieci anni di carcere. Dopo un anno, son tornati liberi.

L’idea che la democrazia possa essere esportata in punta di baionetta non convince più nessuno da tempo, ma i numeri sono più disarmanti di tante parole. In particolare mentre nuovi conflitti si affacciano nei discorsi pubblici in questi giorni di dolorosa impotenza di fronte ai pericoli globali. Nel 2001 in tanti, in buona fede, hanno immaginato che un attacco all’Afghanistan potesse risollevare le condizioni di vita di quel Paese, rendendo più sicura la vita degli afgani e la nostra. Non è andata così, né per loro né per noi.

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