Geopolitica

“Il blocco navale è follia, per fermare la strage di migranti aboliamo i visti”

26 Aprile 2015

Sicuramente non sono l’unico a credere che sull’ultima strage di migranti nel Mediterraneo si sia consumata una delle più grandi fratture nell’opinione pubblica italiana. Forse non del tutto imprevedibile: nel vortice di opinioni, annunci, commemorazioni, summit c’è stato un momento in cui tutti sono sembrati competenti a disquisire di tutto. Meno che di fatti e numeri.

Per esempio 17 e 1600. Il primo numero è quello dei morti nel Mediterraneo al 15 aprile 2014. Il secondo quello dei migranti annegati al 19 aprile 2015. 92 volte quello di un anno fa. Può sembrare sterile affrontare un tema complesso come quello delle politiche migratorie su un piano meramente statistico. Eppure fino a qualche mese fa i profeti dei respingimenti in mare ci ricordavano ossessivamente un altro numero: 108. I milioni che l’Italia risparmia in un anno con l’abolizione di Mare Nostrum.

Mentre ripercorrevo questa sequela di cifre precise quanto lontane dall’immagine del gonfiore dei corpi che galleggiano tra gli scafi delle nostre navi, mi sono ricordato di una cena di qualche mese fa. Ero da due mesi ad Amsterdam per un progetto universitario e poco prima di fare ritorno in Italia ebbi il piacere di conoscere il professor Paolo Cuttitta, esperto in politiche migratorie e studi sul controllo delle frontiere. Venni così a conoscenza del progetto di ricerca cui stava partecipando presso la Vrije Universiteit, finanziato dallo stato olandese con un VICI, la più prestigiosa (e cospicua) forma di investimento statale in ricerca. Tema: “Costi umani del controllo delle frontiere”, tra le cui finalità v’è anche la creazione della prima anagrafe completa dei migranti morti nell’attraversamento del Mediterraneo.  Ho pensato che rivolgergli qualche domanda potesse aiutare a ricostruire cosa sta accadendo meglio di qualsiasi rassegna stampa.

L’ultima strage di migranti sembra prescindere dall’abolizione di Mare Nostrum: l’incidente è avvenuto quando un mercantile si era già avvicinato al peschereccio per prestare soccorso. Eppure in molti sottolineano le carenze di Triton. La staffetta Mare Nostrum-Triton è stata un errore?

Un mercantile non è una nave appositamente concepita e attrezzata per operazioni di soccorso. In realtà neanche le navi da guerra, quelle utilizzate da Mare Nostrum, sono state costruite allo scopo di soccorrere persone a bordo di piccole imbarcazioni, però il personale della marina italiana è stato adeguatamente addestrato e sensibilizzato, e le navi stesse sono state dotate di attrezzature capaci di fare fronte a emergenze di questo genere molto più efficacemente. Detto ciò, e ricordato anche che non abbiamo ancora chiarezza sulla dinamica dell’incidente che ha causato quest’ultima strage, in condizioni di normalità anche un mercantile può svolgere con successo attività di soccorso (nel corso del solo 2014, quando pure era attiva l’operazione Mare Nostrum, ben trentamila persone sono state soccorse, su richiesta della Guardia costiera italiana, da mercantili e altre imbarcazioni private). Il problema è che non si può chiedere continuamente ai mercantili di sostituirsi alle autorità. Non è questo il loro mestiere, e ogni ora, ogni giorno che una nave merci dedica alle operazioni di salvataggio per evitare un disastro umanitario per conto dell’Italia e dell’Europa è un giorno, un’ora di lavoro che va in fumo per l’equipaggio, per l’armatore, per chi aspetta le merci che devono essere consegnate: economicamente, un disastro anche questo. Qualcuno ha osservato che si dovrebbe trovare il modo per risarcire gli armatori, ma ciò non farebbe che aggiungere altri soldi alle già vertiginose somme investite per costruire, armare, rafforzare e difendere i confini al fine di imbrigliare la mobilità delle persone, secondo i principi e le modalità adottate negli ultimi venti e più anni dall’Europa per gestire un problema creato dall’Europa stessa con le proprie politiche migratorie restrittive.

Insomma, non si tratta di un’emergenza imprevedibile ma di errori nelle politiche migratorie che hanno creato problemi strutturali.

È su tali politiche migratorie che bisogna intervenire, e bisogna farlo a monte, evitando che si producano situazioni di emergenza in mare, e non a valle, cercando di tappare le falle con ulteriore dispendio di denaro.

Insomma: da un lato, a soccorrere le persone dovrebbero essere mandate le imbarcazioni concepite a tale scopo (in primo luogo quelle della Guardia costiera), e non le navi merci di passaggio; dall’altro lato, l’attività di soccorso dovrebbe essere qualcosa di eccezionale e non una routine quotidiana. Il nodo è infatti evitare che ci sia gente da soccorrere. Tale obiettivo, però, non può essere perseguito, come sostengono Avramopoulos, Renzi, Alfano e Salvini, facendo in modo che le persone non partano: questa è un’idea irrealizzabile, oltre che profondamente odiosa e ingiusta. Tale obiettivo va invece perseguito facendo in modo che le persone possano partire in sicurezza. Anche il ripristino di Mare Nostrum diventerebbe superfluo. Peraltro Mare Nostrum viene da tanti invocato come toccasana ignorando il fatto, illustrato in un recente articolo, che la sua funzione non è stata unicamente né prioritariamente umanitaria, poiché l’operazione è stata concepita e si è inserita nel quadro di politiche (comprensive, in particolare, della cooperazione di polizia con i paesi nordafricani) esplicitamente mirate a impedire le partenze dal Nordafrica. Dunque anche la decisione presa il 23 aprile dalla UE di triplicare le risorse a disposizione delle missioni di Frontex (l’agenzia europea per le frontiere) nel Mediterraneo, e il tentativo di assimilare tali missioni a Mare Nostrum dichiarando che così la capacità di soccorso verrà aumentata, deve essere letta tenendo presente il contesto complessivo, che continua a vedere l’UE e i suoi stati membri impegnati in primo luogo a impedire che la gente si imbarchi, non certo a far sì che parta in sicurezza.

Le forze politiche hanno prospettato le soluzioni più disparate: dal blocco navale al ponte umanitario all’intervento militare in Libia. Quali misure bisognerebbe adottare nel breve e nel medio termine?

L’intervento militare è senza dubbio l’idea più sciagurata: l’unico risultato certo sarebbe fare cadere ogni speranza di riconciliazione pacifica in Libia per chissà quanti anni. E continuerebbero a pagarne le conseguenze anche i migranti (oltre agli stessi libici: i cittadini libici sfollati, cioè costretti ad abbandonare il loro luogo di residenza pur restando entro i confini del paese, sono già più di mezzo milione). Quella del blocco navale o dell’intervento di polizia mirato a distruggere le barche – operazioni eventualmente realizzabili nell’ambito dell’intervento europeo di PSDC (politica di sicurezza e di difesa comune) prospettato dal Consiglio UE del 23 aprile – è un’idea sconcertante: ci sono migliaia di persone che devono necessariamente lasciare il proprio paese, che si trovano poi sequestrate e sottoposte ad abusi e violenze in Libia mentre attendono di potersi imbarcare, e la soluzione sarebbe costringerli a restare in Libia in tali condizioni? Tralascio ogni commento sul livello di realizzabilità pratica delle proposte, perché già il loro contenuto le rende inaccettabili.

Peraltro il governo di Tripoli ha approfittato della situazione per proporsi come interlocutore all’Europa, per porre le proprie condizioni per la cooperazione, per accreditarsi e acquisire potere negli eventuali negoziati per la pace in Libia. Ancora una volta i migranti vengono usati – come già ai tempi di Gheddafi – come carne da macello e come merce di scambio per ottenere contropartite politico-economiche.

E se invece si organizzasse la gestione in loco degli aventi diritto d’asilo, come pure qualcuno ipotizza?

L’opzione dell’esternalizzazione dell’asilo è una vecchia idea che non si realizza ma nemmeno tramonta mai del tutto, e che torna periodicamente di moda. Lanciata come visione globale nel 2003 dal governo britannico (ispiratosi alla Pacific Solution adottata dall’Australia), rilanciata in salsa mediterranea dai ministri dell’interno tedesco e italiano nel 2004 (dopo il caso della Cap Anamur), rispolverata di recente dal governo italiano nel non-paper presentato all’Unione europea, infine rilanciata dal Consiglio UE del 23 aprile: questa è la soluzione che vuol far credere di coniugare il rispetto dei diritti dei migranti con l’obiettivo di tenere gli stessi alla larga dall’Europa. L’idea si fonda però su un presupposto errato: che in Nordafrica le persone possano godere di adeguata protezione, o che le procedure d’asilo portate avanti lì – eventualmente anche da autorità europee – possano essere credibili.

Nel 2004, durante una ricerca in Tunisia, appurai che le persone straniere acciuffate dalle autorità tunisine venivano sbattute nel centro di detenzione di El Ouardia e in dodici altri centri situati in località segrete, dove non avevano accesso a consulenza legale né ad assistenza medica adeguata. Da lì esse venivano prima o poi deportate nel deserto e abbandonate alla loro sorte oltre la frontiera algerina. Il sistema di asilo era inesistente, e anche i pochi rifugiati riconosciuti come tali dall’Unhcr, l’ufficio competente delle Nazioni unite, venivano trattati esattamente alla stessa stregua degli altri, senza alcun riconoscimento della loro condizione da parte delle autorità tunisine: anche loro detenuti, anche loro deportati nel deserto. Una ricerca svolta nei mesi scorsi mostra che le cose, dopo undici anni, non sono cambiate. Vogliamo continuare a prenderci in giro?

Quale sarebbe quindi una politica migratoria adeguata per evitare il ripetersi periodico di simili stragi?

Solo l’apertura di vie legali per l’ingresso in Europa può evitare perdite di vite umane e garantire il rispetto dei diritti delle persone. Bisogna immediatamente offrire a chi si trova nei paesi di transito come la Libia la possibilità concreta di arrivare in Europa con mezzi sicuri (si veda per esempio la proposta di Watch the Med). Soprattutto, però, bisognerebbe procedere all’abolizione dell’obbligo del visto, che non aprirebbe le porte a nessuna invasione ma consentirebbe alle persone di viaggiare regolarmente. Poiché è certo che quest’ultima ipotesi, almeno nell’immediato, non sarà presa in considerazione, l’introduzione di un visto umanitario (si veda per esempio la proposta di Mediterranean Hope) sarebbe, intanto, già un passo significativo.

Attualmente partecipa ad un progetto di ricerca sulle politiche migratorie finanziato dall’organizzazione olandese per la ricerca scientifica (NWO).Tra gli obiettivi c’è la creazione di un database dei migranti morti nell’attraversamento del Mediterraneo tra il 1990 e il 2013. Sarebbe la prima raccolta completa di questi dati. 

Innanzitutto colgo l’occasione per annunciare che il database è stato ormai completato e sarà reso liberamente accessibile su internet tra qualche settimana.

Thomas Spijkerboer, professore di diritto dell’immigrazione alla Vrije Universiteit di Amsterdam, cominciò a occuparsi di morte alle frontiere quasi dieci anni fa. Io avevo cominciato nel 2003 a tenere una rassegna stampa sui casi di morte nel Canale di Sicilia, e a produrre tabelle annuali con i dati aggregati. Confrontando i miei dati con quelli raccolti dall’organizzazione United for Intercultural Action emergevano discrepanze. Una rassegna stampa, per quanto attenta e capillare, non potrà mai essere esaustiva, e i dati saranno sempre approssimativi, come spesso lo sono le notizie riportate dai mezzi d’informazione. Quando cominciò a raccogliere dati anche Fortress Europe confrontai i tre elenchi: ciascuno riportava qualche caso in più e qualche caso in meno rispetto a quelli riportati dagli altri, e spesso si riscontravano anche informazioni discordanti per quanto riguardava i casi riportati da tutti e tre (per esempio il numero delle vittime accertati e quello dei dispersi, l’origine e il genere delle persone coinvolte etc…). Le rassegne stampa, insomma, sono inevitabilmente imprecise e approssimative.

Io, nel 2007, smisi di compilare le mie tabelle. Thomas Spijkerboer, invece, dopo avere pubblicato quello stesso anno un articolo in cui esplorava la possibilità di individuare responsabilità giuridiche in capo agli stati per le morti alle frontiere, si mise in testa l’idea di procedere a un censimento delle vittime che adottasse un metodo scientifico, quanto più possibile omogeneo, attingendo a dati istituzionali anziché a notizie diffuse da mezzi di informazione. Le istituzioni statali dovrebbero garantire – al contrario dei mezzi di informazione – completezza e precisione, perché la legge impone che ogni persona morta sia registrata dalle autorità. Di conseguenza, Spijkerboer ha pensato di esplorare i registri di stato civile dei paesi europei mediterranei per fare un censimento di tutte le persone che risultano morte nel tentativo di attraversare la frontiera. Quando è riuscito a ottenere i finanziamenti, ha fatto partire il censimento, coordinato da due ricercatori con sede ad Amsterdam e realizzato da undici ricercatori locali. Questi ultimi hanno svolto un imponente lavoro porta a porta, da maggio 2014 a gennaio 2015, esaminando oltre due milioni di certificati di morte nei registri di stato civile e nei registri cimiteriali di 559 diverse località in Italia, Spagna, Grecia, Malta e Gibilterra (gli uffici di altre 35 località, pari al 6% del totale, hanno negato loro l’accesso agli archivi).

I risultati del censimento saranno resi pubblici a metà maggio, quando la banca dati con tutte le informazioni raccolte sarà messa online per la libera consultazione da parte di chiunque sia interessato.

Chiaramente i dati raccolti riguardano solo quelle persone i cui cadaveri sono stati ritrovati dalle autorità dei suddetti paesi europei e quindi registrati nei relativi territori. Numericamente, dunque, si tratta solo di una piccola parte delle persone morte nel tentativo di entrare in Europa: mancano i decessi avvenuti e/o registrati sull’altra sponda (nei paesi dai quali le persone si sono messe in viaggio per raggiungere l’Europa), così come mancano i dispersi (il cui numero – è il caso di ricordarlo – si stima essere ben superiore a quello dei corpi rinvenuti).

Ma perché la vostra ricerca ha ritenuto così importante un’anagrafe dei migranti morti nel Mediterraneo?

L’obiettivo originario del progetto è quello di studiare l’andamento della mortalità negli anni in relazione all’evoluzione delle politiche e pratiche del controllo delle frontiere, in modo da individuare le politiche e le pratiche più letali e obbligare gli stati a rinunciarvi. La mia idea al riguardo è che solo l’abolizione dell’obbligo dei visti potrebbe porre fine a questa ignobile mattanza.

Credo che la cosa più importante sia comunque il fatto che il database metterà a disposizione di tutti i soggetti interessati (dalle autorità statali alle organizzazioni non governative, dai ricercatori universitari agli attivisti) una gran quantità di informazioni relative ai vari eventi luttuosi (tra le principali, benché non tutte sempre disponibili, vi sono: nome, età, genere e origine del defunto; luogo di morte, luogo di ritrovamento, luogo di registrazione, luogo di sepoltura; causa della morte e altri dettagli sull’incidente).

Si spera che ciò possa anche consentire l’identificazione di qualcuno tra i tanti morti ancora senza nome, sciogliendo i dubbi che attanagliano tante famiglie di persone di cui non si hanno notizie certe. Ciò potrebbe avvenire anche attraverso una collaborazione con il programma “Family Links Network” della Croce Rossa (fermo restando che, per ragioni di privacy, nella versione online del database tutti i profili individuali saranno anonimizzati).

Il lavoro fatto dimostra inoltre che è possibile tenere una contabilità dei morti di frontiera. Le autorità dei paesi europei e quelle comunitarie, che sono così solerti nel raccogliere e rendere pubblici i dati sulle persone che arrivano vive (gli “sbarchi”) e sui supposti criminali arrestati (gli “scafisti” e i “trafficanti”), non si sono finora mai decise a fare lo stesso per i morti. Ora esse potranno essere chiamate a proseguire il lavoro avviato con la ricerca dell’università olandese.

Il database, tuttavia, dimostra anche quanto siano scarse e insufficienti, in molti casi, le informazioni registrate dalle autorità locali in relazione ai vari incidenti e alle singole vittime. In alcune circostanze i ricercatori locali hanno anche constatato come, per i morti di frontiera, le regole che vigono per i morti “normali” finiscano per essere disapplicate: già discriminati da vivi, insomma, i migranti finiscono per essere discriminati anche da morti. Su entrambi questi punti, dunque, gli stati dovrebbero intervenire: per assicurare un giusto trattamento ai cadaveri e la raccolta di ogni possibile informazione utile all’identificazione.

Un’ultima domanda. I Paesi Bassi non sono interessati direttamente dalle problematiche migratorie, innanzitutto per ragioni geografiche. Perché crede che abbiano deciso di investire in una ricerca sul tema?

Anche i Paesi Bassi sono interessati: molte delle persone approdate in Italia via mare sono poi riuscite a raggiungere altri paesi europei, tra cui i Paesi Bassi. Anche ad Amsterdam, come già in diverse città del Nord Europa, si è creato un movimento di protesta di migranti che reclamano il diritto a restare – contro la minaccia dei respingimenti – e ad avere diritti. Il Mediterraneo non finisce a Genova e a Trieste, a Barcellona e ad Atene, ma si espande fino a Rotterdam, a Lubecca, a Stoccolma. Lo testimonia anche il nome che si sono dati i movimenti di migranti nati negli anni scorsi in diverse città tedesche: “Lampedusa in Hamburg”, “Lampedusa in Berlin”…

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