Geopolitica

Gerusalemme capitale, Trump firma l’ultimo atto del disastro

6 Dicembre 2017

Quella di Gerusalemme negli ultimi decenni è una storia di fatti compiuti, imposti alla comunità internazionale, finora incapace di attuare una sola delle risoluzioni approvate all’Onu. È un fait accompli la spartizione tra Israele e Giordania nel corso della guerra del 1948/1949: le Nazioni Unite avevano previsto per la Città Santa lo status di corpus separatum sotto un’autorità internazionale, così da garantire la libertà dei pellegrinaggi nei Luoghi Santi delle tre grandi religioni abramitiche. Ma i governi di Tel Aviv e di Amman si accordarono per spartirsela. È un fatto compiuto l’annessione di Gerusalemme Ovest a Israele e la sua proclamazione a capitale nel 1950, nonostante nessuno stato al mondo l’abbia mai riconosciuta come tale. È un fatto compiuto l’annessione della parte orientale della città da parte di Israele nel 1967 e successivamente la proclamazione da parte del parlamento israeliano nel 1980 di Gerusalemme capitale «una e indivisibile». Una serie di piccoli e grandi strappi condotti unilateralmente da Israele, con la pazienza di chi ha in mente un progetto di lungo periodo.

Il più grande fatto compiuto, però, è la progressiva opera di reinsediamento che i quartieri arabi della città hanno subito nel corso degli anni, con particolare intensità durante i governi di Netanyahu. Aree pian piano svuotate della popolazione araba si sono aggiunte ad altre in cui le nuove edificazioni hanno proceduto a sovvertire gli antichi equilibri demografici.

Gli Stati Uniti, in questi decenni, hanno sempre svolto un ruolo di mediatore sbilanciato, sotto ogni amministrazione. Donald Trump, riconoscendo Gerusalemme capitale, rende più palese, urlata e diplomaticamente insidiosa una posizione che in realtà è in continuità con quelle di Bill Clinton – che appoggiò con entusiasmo la soluzione “sudafricana” di Camp David nel 2000 – e di George W. Bush – la cui contiguità con Ariel Sharon andava ben oltre il solido rapporto di amicizia tra i due.

Difficilmente i palestinesi di Gerusalemme potranno contare su un significativo apporto arabo. Di fatto, da molti decenni ormai, nonostante i numerosi proclami, nessun paese arabo si è concretamente speso in loro difesa. Non lo ha più fatto la Giordania, la cui esistenza stessa dipende dai buoni rapporti con Israele e con gli Usa; né l’Arabia Saudita, per la quale contano di più i saldi legami con Washington che quelli fittizi con i palestinesi; né la Siria, la cui violenta retorica antisionista negli ultimi decenni è stata usata più per ragioni di politica interna che in difesa dei palestinesi. Anche fuori dal mondo arabo, è nota l’ambiguità della Turchia di Erdoğan, che dopo l’incidente della nave Mavi Marmara nel 2010 ha già vissuto una lunga e profonda crisi con Tel Aviv, infine superata senza molti clamori: la difesa dell’identità araba di Gerusalemme sembra rientrare più nel quadro del disegno neo-ottomano di Ankara, di estensione della propria influenza regionale dopo la crisi che questo progetto egemonico ha vissuto con il fallimento delle primavere arabe. Mentre l’Iran ha già dimostrato di potersi aprire agli Usa, alla bisogna, senza tante remore ideologiche.

Ciò non vuol dire che la decisione di Trump non avrà conseguenze regionali e internazionali: su tutte un incremento della violenza nei Territori occupati e forse anche qualche problema in più per i viaggiatori statunitensi nei paesi arabi – ma questi, agli occhi di un presidente che ha già dimostrato scarsa empatia verso le famiglie degli americani vittime di violenza in patria e all’estero, sono soltanto fastidiosi effetti collaterali.

Il problema cruciale è che il disaccordo sullo status di Gerusalemme è uno dei tre nodi che hanno finora ostacolato ogni processo di pace (gli altri due sono lo smantellamento delle colonie nei Territori occupati e la risoluzione del proclamato “diritto al ritorno” dei palestinesi ai loro villaggi distrutti nel 1948 e oltre). Gli Usa hanno ora chiaramente preso una posizione che impedisce la via della pace tra le due parti e che, al momento, sembra orientarli verso la soluzione di un “unico stato”, affondando quella dei “due stati”. Non è detto che questa soluzione sia la migliore, nel lungo periodo, per Israele, che prima o poi dovrà scegliere tra il conferimento della cittadinanza ai palestinesi inglobati nel proprio territorio – finendo così per perdere la propria prevalente identità di “stato degli ebrei” – e l’abbandono del modello democratico e pluralista che nonostante notevoli contraddizioni continua a conservare. Non è un mistero che alcuni esponenti, finora minoritari, dell’estrema destra israeliana siano orientati in questa seconda direzione.

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