Geopolitica
Duecento milioni di migranti climatici: non è fantascienza, ma il futuro
Il disastro che colpisce i nostri mari, con la strage dei migranti morti nel tentativo di raggiungere le nostre coste, viene trattato come se fosse solo un problema di protezione delle nostre frontiere. Se avessimo un reale interesse per queste genti, la tragedia del Canale di Sicilia ci dovrebbe far riflettere anche sulle cause che spingono folle di disperati a lasciare i propri Paesi di origine, per imbarcarsi in viaggi che si trasformano troppo spesso in atroci incubi. Purtroppo nemmeno in questi giorni crudeli si parla delle interdipendenze tra questioni ambientali, giustizia climatica e migranti.
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In effetti, le interdipendenze tra ambiente, cambiamenti climatici e migrazioni sono difficili da valutare nei termini numerici. Infatti le conseguenze del surriscaldamento del Pianeta, come le tempeste, le siccità e le inondazioni, agiscono come un fattore di stress che, in aree già provate da povertà e instabilità politica, portano a inasprire le condizioni delle popolazioni, aprendo la strada alla necessità di lasciare le proprie terre. I cambiamenti climatici infatti hanno conseguenze proporzionalmente maggiori proprio verso coloro che poco o nulla hanno contribuito alle emissioni di gas serra e che non hanno le risorse per adattarsi al cambiamento. È un’ “ingiustizia climatica”, che colpisce ad esempio alcuni Paesi dell’Africa, dell’Asia o le isole del Pacifico.
È quanto è successo in Siria, uno dei Paesi di provenienza di molti dei migranti giunti fino alle nostre coste. Secondo uno studio della National Academy of Sciences of the United States of America, in Siria l’eccezionale siccità del triennio 2007-2010, attribuibile per la sua intensità ai cambiamenti del clima, ha contribuito al conflitto, iniziato nel 2011. E’ stata la peggiore siccità in quell’area da quando esistono le registrazioni tramite strumentazioni. Ha causato perdite dei raccolti così ampie da innescare migrazioni di massa di intere famiglie contadine verso i centri urbani. E così la terra dell’allora Mezzaluna Fertile si è trasformata in una zona da cui fuggire. Certamente, la miccia della guerra civile è nata da dinamiche socio-politiche; ma, come un fuoco appiccato in estate su una sterpaglia, è divampata su una popolazione già stremata. Perciò lo studio conclude che “l’influenza umana verso il sistema climatico è implicata dal conflitto siriano”.
Come dichiarato dall’International Organization for Migration (IOM), non ci sono stime precise dei migranti climatici. Lo status di rifugiato climatico non è ancora previsto nella legislazione internazionale: nel 2013 aveva suscitato clamore la richiesta della famiglia del Kiribari, piccolo arcipelago-stato del Pacifico composto da 33 isole su cui vivono 103.000 abitanti, che aveva chiesto alla Nuova Zelanda asilo per ragioni climatiche a causa del pericolo di innalzamento delle acque. La richiesta era stata rigettata perché il requisito internazionale per ottenere lo status di rifugiato è una “legittima paura di essere perseguitati” nel Paese di origine e non contiene, quindi, motivazioni di carattere ambientale.
Successivamente, nell’agosto scorso si era parlato della prima richiesta accettata di rifugiato climatico: si trattava anche in questo caso di una famiglia delle isole del Pacifico, del Tuvalu, che ha ottenuto di poter rimanere in Australia. Pochi giorni dopo, però, era stato chiarito che la decisione del Tribunale per l’Immigrazione neozelandese non era presa in base alla Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati del 1951, ma che l’esposizione agli impatti dei disastri naturali aveva, in termini generali, costituito una circostanza di natura umanitaria: insomma, non si può parlare del primo rifugiato climatico, per cui questo accoglimento non costituisce un precedente internazionale per il riconoscimento dell’asilo climatico.
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Allo stesso tempo, è evidente come i cambiamenti climatici abbiamo già causato movimenti consistenti di popolazioni. Il numero di tempeste, siccità e inondazioni è aumentato di tre volte negli ultimi 30 anni con effetti devastanti su comunità vulnerabili, specialmente nei Paesi in via di sviluppo. Nel 2008, 20 milioni di persone sono state spostate a causa di eventi atmosferici estremi, mentre i cambiamenti più graduali, come le siccità, hanno un impatto ancora maggiore. Le previsioni per il futuro variano tra 25 milioni a 1 miliardo di migranti ambientali entro la metà di questo secolo: la stima di 200 milioni al 2050 è quella più citata (fonte: IOM).
Allora, di fronte a questa previsione di aumento dei migranti a causa dei cambiamenti climatici, cosa dobbiamo fare? La strategia IOM prevede tre tipi di azioni: innanzitutto prevenire la necessità di migrazioni come risultato di fattori ambientali. Secondo, fornire assistenza e protezione alle popolazioni affette e cercare soluzioni a lungo termine. Terzo, facilitare la migrazione come strategia di adattamento ai cambiamenti climatici. Le implicazioni di un’applicazione di queste azioni per il sistema giuridico internazionale sono enormi: la necessità di un’evoluzione legale è approfondita in un report dell’International Bar Association Task Force on Climate Justice and Human Rights (IBA), intitolato “Giustizia e Diritti Umani nell’Era del Caos Climatico”.
Il report evidenzia come i meccanismi legali esistenti per indirizzare mitigazione, adattamento e risanamento dai cambiamenti climatici non riescano a rispondere alla scala della questione globale: perciò si propone una riforma strutturata in 50 “raccomandazioni”. Tra queste il riconoscimento legale di un nuovo diritto umano universale: quello di vivere in un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile. Si prescrive anche la creazione di una nuova struttura internazionale per la risoluzione delle questioni climatiche, tra cui una nuova Corte Internazionale sull’Ambiente, con collocazione temporanea presso la Corte dell’Aia.
Quello che risulta chiaramente, sia dalla letteratura che anche, purtroppo, dalla cronaca, è che dobbiamo passare dalla comprensione dei fenomeni questione climatica e migrazione ambientale all’azione: non solo vigilando sulle frontiere, ma aprendo nuove possibilità, anche di natura giuridica, per prepararci a un aumento consistente delle popolazioni che fuggono dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Solo così potremo prepararci alle sfide del futuro ed evitare nuove ecatombi.
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