Ucraina al bivio tra Europa e Russia
All’indomani della missione congiunta franco-tedesca a Mosca per presentare a Vladimir Putin il piano di pace per l’Ucraina, il presidente francese François Hollande ha gelato l’ottimismo. «Penso che sia una delle ultime possibilità: se non riusciamo a trovare un accordo di pace duraturo, conosciamo perfettamente quale sia lo scenario e il suo nome: si chiama guerra». Da Monaco di Baviera, dove è in corso la 51esima Conferenza internazionale sulla sicurezza, Merkel si è però mostrata cauta: «Dopo i colloqui di ieri posso dire che è incerto che questi abbiano avuto successo, ma ha certamente avuto valore il tentativo», aggiungendo che «se è vero che la soluzione non può essere militare, fornire armi non è la soluzione». Nel pomeriggio è arrivata la risposta di Putin, che oggi è intervenuto al nono Congresso dei sindacati russi a Soci: «Non vogliamo combattere con nessuno ma intendiamo collaborare con tutti».
Alla Conferenza di Monaco sono presenti il vicepresidente Usa Joe Biden, il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov e il presidente ucraino Petro Poroshenko. Per l’Italia sono partecipano il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e la ministra della Difesa Roberta Pinotti. Intanto, nelle ultime 24 ore, ha riferito un portavoce dell’esercito di Kiev, sono stati uccisi 5 soldati ucraini e registrati 26 feriti, mentre vengono segnalate concentrazioni di forze separatiste filorusse su tutto il fronte e in particolare vicino allo strategico snodo ferroviario della città di Debaltseve e alla città portuale di Mariupol, 120 km a sud ovest di Donetsk (aggiornamento 7 febbraio 2015).
Di seguito la nostra inchiesta pubblicata il 5 gennaio
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Camminano a passo d’uomo nella lunghissima fila tinta di giallo e azzurro, frugando con lo sguardo tra le centinaia di foto affisse sul pannello di compensato. All’improvviso si fermano: l’hanno trovata. Guance graffiate dalle lacrime, Tatiana fissa l’immagine di Sacha, il figlio morto alcuni mesi fa durante un agguato nel Donbass. Maria, figlia e sorella, accarezza la spalla della madre e la invita a continuare a camminare, per evitare di intralciare il passaggio di altre centinaia di persone, giunte da tutta l’Ucraina per lo stesso motivo.
Tatiana, Maria e Sacha sono i simboli dell’Ucraina che con tanto affanno prova ad iniziare il futuro con il 2015. Nel frattempo la rivoluzione della dignità, come i primi attivisti avevano chiamato quella che sarebbe stata rimbalzata in tutto il mondo come #Euromaidan, è diventata rivoluzione della memoria. Maidan Nezalezhnosti, piazza dell’Indipendenza, è un lungo labirinto di foto, candele e barattoli per raccogliere spicci da destinare ai battaglioni di volontari dislocati lungo gli oltre 500 km di fronte con i separatisti. Qualche cantante folk racconta in versi i proiettili sparati dai cecchini nel freddo di febbraio, un anziano vestito da cosacco distribuisce ai passanti opuscoletti sulla “vera” storia della Crimea.
La nuova coesione sociale è basata sul ricordo del 21 novembre 2013, quando l’ex presidente Viktor Janukovyc sospese l’accordo di associazione con l’Unione europea dando inconsapevolmente il via alle manifestazioni. L’ha capito bene il suo successore, Petro Poroshenko, che di questa memoria farcisce ogni azione di governo. A partire proprio dal recente decreto che ha reso il 21 novembre festa nazionale.
Certo, non basta una festa per rinnovare il consenso conquistato alle urne. L’ha sperimentato proprio in piazza, quando è stato sonoramente fischiato da diversi dei famigliari delle oltre 1000 vittime della rivoluzione, che chiedono un’assistenza sanitaria e sociale potenziata ai parenti dei “martiri”. Ma anche una presa di posizione più netta verso chi era dall’altra parte della barricata e ora ha cambiato bandiera per mantenere posizioni di potere.
Doveva essere anche il 21 novembre di Joe Biden, appena atterrato a Kiev e pronto al bagno di folla. Ma non è stato così. Visti i fischi e le urla verso Poroshenko, il vice presidente degli Stati Uniti ha preferito non uscire dall’auto e ha virato verso luoghi più riparati. Del resto il figlio di Joe, Richard, è membro di spicco del cda della Burisma, la principale compagnia di gas dell’Ucraina. Una contestazione pubblica avrebbe creato un pericoloso precedente.
Ma non saranno certo i fischi a impedire il percorso politico tracciato da Poroshenko. Il presidente e magnate della cioccolata ha promesso che entro il 2020 l’Ucraina farà la sua candidatura ufficiale per diventare membro dell’Unione europea. Promessa che non convincono una buona parte dell’elettorato, sempre più deluso dal supporto diplomatico dell’Unione europea nelle varie fasi della crisi. Del resto l’Ue non ha mai promesso una full membership, ha partecipato al post Janukovyc tenendo principalmente conto delle necessità di Lituania e Polonia e non ha offerto una reale exit strategy diplomatica che andasse oltre le sanzioni alla Russia.
Nel frattempo, nei confronti della Nato, il parlamento ha deciso di disfare il paese del rango di paese non allineato, con buona pace delle minacce per niente velate del Cremlino. In questa ottica si leggono i nomi dei tre ministri “stranieri” scelti nel rimpasto di governo di dicembre: alle Finanze è andata Natalia Jaresko, americana di origini ucraine; all’Economia il banchiere Aivaras Abromavicius, lituano, partner della svedese East Capital e un passato al Dipartimento di Stato americano; per concludere Alexander Kvitashvili, georgiano già ministro a Tbilisi, sarà il capo della Sanità con l’obiettivo di privatizzare quanto possibile, prendendo a modello proprio la madrepatria.
Intanto l’economia è al collasso, in un anno il valore della moneta locale, la hrvynia, si è praticamente dimezzato: attualmente vale circa 0,05 euro. Con la valuta in caduta libera la banca centrale, su invito occidentale, spingerà ulteriormente i tassi d’interesse (il tasso di sconto attuale, secondo l’Economist, è al 14%); i prezzi dei beni di prima necessità sono in continuo aumento e gli stipendi sono gli stessi da tempo immemore, seppur il tasso di disoccupazione sia piuttosto basso (8,6%) e sia effettivamente sceso nella seconda metà del 2014. Ad ogni modo, secondo l’analista Timothy Ash dalla caduta dell’Unione sovietica gli ucraini si sono impoveriti almeno del 20%. Un collasso sottostimato dall’Occidente che finora tramite il Fmi ha dato sette miliardi di dollari a Kiev, troppo poco per porre le basi per una reale ristrutturazione di una economia che fino all’anno scorso nessuno immaginava potesse andare così a picco.
Cosa è cambiato allora, da quel 21 novembre 2013? “Cercavamo di togliere una verruca, abbiamo scoperto un tumore”, spiega Masha, coordinatrice locale di un’associazione di adozioni internazionali. “Ma non dite che tutto è come prima. C’è gente che ha davvero voglia di cambiare questo paese: io posso testimoniare che nei centri infantili c’è più interesse verso il futuro dei bambini, prima totalmente soffocato dalla corruzione dei funzionari di Janukovyc”.
“La differenza con prima è che ora decidiamo noi perché sappiamo chi siamo, in piazza abbiamo scoperto di essere un popolo”, è il mantra che si sente un po’ ovunque nei caffè e nelle università delle grandi città dell’Ucraina occidentale e centrale. “Ma servirebbe una classe politica completamente nuova, forse un incidente aereo come quello accaduto al governo polacco aiuterebbe a ripartire da zero”, provoca Yevhen, sales manager di una catena di distribuzione alimentare. “Lavoro ogni mese con la Germania e capisco che qui non ci sarà mai la possibilità di arrivare a tanta trasparenza”.
Da un lato l’ottimismo dei giovani, affascinati dall’idea di un paese liberale e meritocratico di orientamento occidentale, dall’altra il malcontento crescente per la crisi economica, la corruzione, le scelte strategiche e militari del governo. E il dito è puntato anche contro quello stesso occidente, accusato di aver usato l’Ucraina come pedina nell’infinita partita contro la Russia.
Così l’anniversario dell’inizio di Euromaidan vede gli attivisti ancora coesi ma provati da un evento che ha cambiato per sempre le loro vite, come singoli e come comunità.
Ne è la prova il giornalista Mustafa Nayyem, 33enne rifugiato dall’Afghanistan ed ex contributor dell’Ukrayinska Pravda, tra le figure di spicco della piazza anti Janukovyc. Un personaggio carismatico, apprezzato in patria e all’estero per il coraggio con il quale ha accusato i giornali ucraini di essere deboli nei confronti del potere. A un anno di distanza, si presenta sulla stessa piazza come politico, eletto parlamentare nella lista di Poroshenko. I suoi colleghi della pluripremiata web tv Hromadske, prima accanto a lui e ora in mezzo alla folla ad ascoltarlo, si chiedono se Mustafa sia ancora lo stesso intellettuale indipendente o se le decine di slava Ukrayini (“gloria all’Ucraina”) con i quali ha condito il suo patriottico intervento non siano il segno di una svolta nazionalpopolare più funzionale alle logiche di partito.
Davanti a decine di migliaia di persone, pazienti nonostante il freddo glaciale, sul palco al centro della piazza è salita, accompagnata da un boato, anche la cantante Ruslana, vincitrice dell’Eurovision 2004 e icona da oltre dieci anni di tutto l’attivismo politico di stampo libertario che passa per Kiev. Al contrario di Nayyem, in questi ultimi mesi Ruslana ha attaccato apertamente Poroshenko e la sua politica militare nel Donbass, invocando addirittura una terza Maidan.
Ma i veri eroi della piazza sono i combattenti volontari: una folla eterogenea di ucraini uniti dall’obiettivo comune di sconfiggere i separatisti filo-russi e riconsegnare gli oblast di Lugansk e Donetsk a Kiev. Provengono da ogni classe sociale e ogni regione, hanno lasciato lavoro, famiglia e stipendio per imbracciare (spesso per la prima volta) il kalashnikov e difendere la nazione. Fanno la spola tra il fronte e le città di origine, sempre vestiti in mimetica, come a ribadire che la difesa della nazione non conosce pause, nemmeno quando si è in congedo. E intorno a loro gira tutta la propaganda di unità nazionale, che è inevitabilmente modellata per attutire l’impatto di quella dei canali televisivi russi, seguitissimi in tutto l’Est senza alcuna interruzione temporale dai tempi dell’Urss.
Così le immagini dei soldati volontari sono ovunque: al posto di modelle svestiste nelle tv al plasma delle discoteche, nei ristoranti etnici, a ridosso degli affreschi delle chiese. E proprio il prelato del cattolico ovest assume un ruolo fondamentale di raccordo tra le migliaia di donatori interni e della diaspora europea e le organizzazioni di supporto ai vari combattenti. Che siano regolari o no, poco conta: divise invernali, stivali e occhiali infrarossi servono agli uomini scelti dal ministero della Difesa così come ai battaglioni spontanei non supportati ufficialmente da Kiev. Tra questi spunta inevitabilmente quello del Pravyy Sektor, quel settore destro ridotto da russi e da gran parte dei media occidentali a una schiera di teppisti neonazi armati di mitra e granate.
In realtà, dopo aver conquistato l’opinione pubblica difendendo i manifestanti del Maidan dalla polizia di Kiev, i leader dei vari gruppi nazionalisti hanno potuto rielaborare anni di rappresaglie e tifo da ultrà in un partito ben strutturato, con un rappresentante al parlamento, Dmytro Yarosh, e una diffusione capillare nel territorio. Un approccio olistico alla destra che ha permesso di far confluire nello stesso battaglione hooligans di Dinamo e Metalist, immigrati armeni e georgiani, liberali europeisti e conservatori, neonazi russi antiputiniani ed ebrei ortodossi. Proprio la presenza di ebrei al fronte è l’appiglio con il quale i responsabili della comunicazione del partito provano a scrollarsi di dosso l’etichetta di formazione antisemita. “Amiamo il pragmatismo degli ebrei”, ci racconta Oleks, uno dei dirigenti del partito a Kiev mentre ci mostra scatoloni di beni e divise inviati da una sinagoga. “Ci hanno detto che non sono convinti dei nostri metodi e proprio per questo ci aiutano affinché li difendiamo dai russi”.
Così la costruzione di una nuova identità nazionale passa attraverso una improvvisata rete di gruppi colmi dello zelo necessario a bilanciare evidenti lacune militari; attraverso un cinema di forte impatto hollywoodiano che rielabora iconograficamente la resistenza nazionale sotto i sovietici. E attraverso quella Maidan che ha per sempre cambiato la consapevolezza e i destini di una intera generazione di ucraini.
Ma è ancora presto per dire se quel sangue versato prima in piazza e poi al fronte possa davvero servire a mandare a casa gli oligarchi, riportare l’unità nazionale e dare al paese una solidità geopolitica slegata dagli imperialismi.
2 Commenti
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Non capisco una cosa Joshua: per dimostrarsi “paese non allineato” è obbligatorio rendere ministri ex funzionari del Dipartimento di Stato americano, visto che anche la Jaresko lo è? Per il resto, complimenti.
inspiegabili paradossi :)