Con 166 voti favorevoli, 112 contrari e 1 astenuto, il Senato ha approvato in via definitiva la legge delega sul lavoro, meglio nota come Jobs Act, su cui il governo Renzi ha posto la questione di fiducia. Al di là degli aspetti tecnici peraltro sconosciuti nei dettagli, visto che saranno decisi dal governo stesso con l’emanazione di decreti legislativi, il provvedimento è fondato sulla convinzione che l’occupazione riparta con una nuova riforma del mercato del lavoro. Una convinzione ereditata dagli anni Novanta: che basti cioè cambiare qualche norma, aggiungendo ad esempio il “contratto a tutele crescenti” a quelli esistenti, per rilanciare l’economia.
Nella legge di stabilità, per fare un esempio, il governo prevede l’azzeramento dei contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato con uno stanziamento da 1,9 miliardi di euro. Secondo un rapporto dell’Associazione XX Maggio, area Partito Democratico, questo bonus da 6200 euro a testa valido per tre anni non renderà il lavoro dipendente meno costoso per le imprese. Servirebbe una cifra almeno doppia per garantire 300 mila assunzioni.
La cifra annunciata finirà già a metà dell’anno prossimo e le imprese – se ci sarà domanda – torneranno ad assumere con il contratto a termine in versione “ultra-light”, quello approvato nel “Jobs Act 1”. Quest’ultimo contratto è “senza causale”: permette cioè infinite proroghe attraverso la modifica della mansione lavorativa. In pratica, il suo lavoro cambierà nome, ma avrà la stessa sostanza. Fino a quando converrà all’impresa. Si potrà lavorare ogni giorno con un contratto diverso. In questo modo il lavoratore accumulerà 365 contratti in un anno. È un caso limite, certo, ma verosimile. Questo contratto è più conveniente e può essere usato in alternativa al “contratto a tutele crescenti”. Dipenderà dalla contingenza e dalla disponibilità dei fondi messi a disposizione dal governo.
Si era detto di semplificare la scelta dei contratti precari. Nel supermarket dei contratti è stato aggiunto invece un nuovo prodotto che entra in concorrenza con gli altri sul mercato. È un altro tic degli anni Novanta: stimolare una corsa al ribasso nella scelta dei contratti. Se non si vincola i bonus di questo tipo all’occupazione addizionale, e non all’occupazione creata dalla sostituzione tra contratti, la precarietà aumenta.
Solo il 17,6% di contratti a tempo indeterminato
Vivere nel futuro, con la testa rivolta al passato, produce malintesi. Si può lavorare anche solo per un mese, o anche per un giorno, e risultare occupati. Pur essendo cambiato, il lavoro viene governato con le stesse ricette degli anni Novanta. Prendiamo, ad esempio, un”elaborazione della Cgil sui dati dell’osservatorio della comunicazioni obbligatorie del ministero del lavoro.
Nel primo trimestre 2014 su 1.849.844 attivazioni di nuovi rapporti di lavoro, il 43,5 % hanno avuto una durata inferiore al mese, 331.666 un solo giorno. Sempre nello stesso periodo il 67% delle assunzioni effettuate è stato formalizzato con contratti a tempo determinato, l’8% con contratti di collaborazione, poco più del 2% con contratti di apprendistato e solo il 17,6% con contratto a tempo indeterminato. Si può dire che tutte queste persone siano occupate allo stesso modo? Per le statistiche sì. Nella vita quotidiana delle persone, no.
Dimostrare l’esistenza di una crescita dell’occupazione è un imperativo. Così pressante che nel 2013 la Banca centrale inglese ha stabilito che non abbasserà i tassi d’interesse finché la disoccupazione non sarà scesa al di sotto del 7 per cento. Contare tra gli occupati quelli precari e quelli a tempo indeterminato è rilevante perché dal loro numero dipenderanno gli interessi sui mutui, così come quelli dei prestiti a un istituto di credito da parte della banca centrale. La stessa legge vale in Italia. I precari servono a rilanciare l’economia. Che siano, o meno, stabili.
Un paese laboratorio del diritto del lavoro
Il Jobs Act cerca di applicare questa legge vincolando l’esigibilità delle tutele di chi lavora ai risultati dell’impresa. Questo dovrebbe creare più occupazione. Fino ad oggi però le precedenti riforme hanno moltiplicato la disoccupazione. Basta prendere i dati degli ultimi due anni. Nata per creare occupazione, la riforma Fornero del lavoro ha creato più disoccupazione tra i collaboratori. Dal 2007 al 2013 ne sono stati registrati circa 350 mila in meno, di questi quasi 200 mila solo tra il 2012 e il 2013. La spiegazione fornita dal governo è che c’erano troppe “rigidità” che impedivano l’assunzione. Ora non ci sono più, ma le incertezze restano intatte.
Il quadro uscito dall’approvazione del Jobs Act è ancora quello descritto ne La furia dei cervelli: l’Italia è un paese laboratorio che mescola l’arcaico con il più moderno ma non pensa mai al suo presente. Ad esempio, alla vita di 3 milioni 410 mila di disoccupati e circa 3,4 milioni di “sfiduciati” o “forza lavoro potenziale”. Senza contare le 3.300 milioni di partite Iva e i quasi 4 milioni di precari. A questo quinto stato il Jobs Act dovrebbe garantire un sussidio universale. Non è precisamente così. Nel già citato rapporto, l’associazione XX maggio sostiene che la nuova “assicurazione per la disoccupazione” Aspi verrà estesa solo ad altri 46.577 collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co), quelli con più di tre mesi di contributi versati. La platea di lavoratori che potrebbe accedere al «nuovo» sussidio di disoccupazione crescerebbe fino a 317.656 persone, un numero che comprende 267.079 collaboratori a progetto. Praticamente un disoccupato su 10. Senza contare che nulla viene garantito a chi ha una partita Iva, ha lavorato con o senza contratto meno di tre mesi.
Questo dato rende meno “universale” il sussidio, anche tra i lavoratori parasubordinati. Senza contare la discriminazione maggiore, che poi costituisce la cifra dell’intero provvedimento: l’abolizione dell’articolo 18 per i neo-assunti. Volevano abolire l’apartheid tra garantiti e precari. L’hanno invece rafforzao tra chi ha l’articolo 18 e chi no. Prigioniero di un déjà vu, Renzi viaggia a bordo di una macchina del tempo, quella che lo ha riportato ai suoi vent’anni, quando si parlava di “Terza Via”. Una via giudicata “anacronistica” dal suo principale sostenitore: Massimo D’Alema.
D’Antona rimasto inascoltato
E tuttavia gli anni Novanta si fecero sentire voci dissonanti. Quelle degli eretici che si erano distaccati dai parametri mentali di una sinistra che, ancora oggi contro Renzi, sostiene un ritorno agli anni Cinquanta del fordismo. È arrivato il momento di chiedersi come si fa a condurre una vita degna quando non si trova un lavoro, scriveva Ulrich Bech in Germania. In Italia un autentico riformista come Massimo D’Antona, tragicamente assassinato dalle Brigate Rosse, gli rispondeva che l’epoca della piena occupazione nel lavoro stabile non era più pensabile e che bisognava rifondare le tutele a partire dalle esigenze della persona e non più da quelle del lavoratore subordinato. Ad entrambi faceva eco Alain Supiot dalla Francia: allarghiamo le tutele per tutte le forme del lavoro. I diritti sociali di tutti devono essere tutelati con un reddito di base universale, aggiunsero i teorici del reddito di cittadinanza in tutto il mondo.
Quella stagione riformatrice si chiuse con la stesura della Carta di Nizza, proclamata il 7 dicembre 2000 e poi adottata dal Parlamento europeo il 12 dicembre 2007. Per Stefano Rodotà, che contribuì a scriverla, essa garantisce il diritto all’assistenza sociale e abitativa e un’esistenza dignitosa ai cittadini, indipendentemente dal suo essere o meno occupato. Sono ancora queste le premesse per una riforma del Welfare in senso universalistico e continentale. In un ritratto commovente scritto nel 2007 il giurista Umberto Romagnoli ha fatto un bilancio di un tempo in cui sopravvivono solo gli spettri. A partire dal diritto del lavoro. In quegli anni, tuttavia, una generazione si fece sentire in Europa e intuì che il lavoro non è più l’unico modo per garantire il diritto o la cittadinanza. Non è stata ascoltata. Il suo appello è ancora valido.
In alto, Installazione “
di Gianfranco Angelico Benvenuto, Milano, 2012, foto di Pierangelo Zavatarelli (CC) – «Cento anonime tute vuote, riempite solo dal vento che dà loro corpo in questo composto cammino senza i colori della speranza di Pellizza da Volpedo. Perché l’assenza di chi è morto per il lavoro o perchè lo ha perso diventi la presenza più autentica e più viva. Perché almeno il silenzio possa penetrare il muro dell’indifferenza al dolore altrui».
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