Filosofia
“Del terrorismo come una delle belle arti”: intervista a Mario Perniola
Scrivere letteratura non può essere banalmente abbinato ad un seppur raffinato gusto per la vanità, quanto alla necessità o più precisamente ancora al bisogno di una ricerca ostinata della centralità che oggi il dibattito pubblico sembra aver smarrito ormai inabissatosi in quel labile e scivoloso gioco obbligato della superficie. Si direbbe allora che solo il residuale, l’abbandonato, l’icastica struttura inutile del tempo passato, ma proprio per questo perenne nei suoi resti, possano rimanere quali elementi di elaborazione di un pensiero, di una relazione.
Mario Perniola con Del terrorismo come una delle belle arti (Mimesis, Milano 2016) compie un doppio passo che sta come indicato in quarta di copertina tra il serio e il faceto. Riporta alla luce un testo inabissatosi e rifà dell’esordio una forma di presenza, un gesto irrituale che risalendo dal passato contribuisce a farsi contemporaneo.
Un libro svolazzante e vibrante la cui lettura è un obliquo peregrinare tra stagioni e ombre, come un faro acceso che nella notte non si limiti ad illuminare ciò che resta, ma che sappia dare forma a ciò che potrebbe essere, all’immaginazione del reale. Abbiamo incontrato Mario Perniola a cui abbiamo affidato alcune domande sul presente e lo stato della cultura in Italia e nelle sue prossimità
Cosa è per lei la passione letteraria?
Penso che l’importanza assunta dalla letteratura nella storia dell’Occidente derivi dai poemi omerici e dalle circostanze straordinarie che hanno fatto dei poemi omerici il fondamento della civiltà greca. Essi sono nati in un’epoca caratterizzata dall’assenza di una casta religiosa, custode di una ortodossia dottrinaria e della strema debolezza di un potere politico forte e organizzato su vasta scala. Si tratta di circostanze non solo rare, ma pressoché uniche nella storia dell’umanità. Infatti moltissimi popoli hanno avuto una mitologia, ma solo presso i Greci sono stati gli aedi e i poeti “a fissare una teogonia, a dare agli dei i loro epiteti, distribuendo onori e attributi, nonché a descriverne l’aspetto” (Erodoto, II, 53). Essi si presentavano come i portatori di un sapere impersonale che era loro trasmesso dalla Musa, alla quale non potevano opporsi, pena l’essere privati dalla facoltà del canto: pur nell’ambito di questa autonomia limitata rispetto alla tradizione e forse rispetto al loro uditorio, essi non dovevano rendere conto a nessuna autorità religiosa del contenuto dei loro poemi, perché erano essi stessi gli unici depositari legittimati della mitologia. Questa infatti si presentava non come una dottrina che sollecitava un’adesione soggettiva, ma come un insieme di racconti autorevoli, irriducibili all’alternativa tra vero e falso. Il fatto che alle origini della civiltà occidentale la religione sia indistinguibile dalla cultura poetica costituisce un evento di enorme importanza per l’estetica e un potente antidoto contro ogni forma di fanatismo e di fondamentalismo.
La seconda circostanza eccezionalmente favorevole al sorgere di un orizzonte estetico è costituita dalla mancanza nella Grecia omerica di un potere politico centralizzato paragonabile agli imperi orientali e perfino di una organizzazione federale stabile di città e di villaggi. Tutte le istituzioni politiche di quest’epoca avevano un carattere fluido e flessibile. I cosiddetti re greci non sono a capo di veri e propri stati, ma di entità socio-politiche sovrapposte e la regalità non è affatto sinonimo di monarchia. Le decisioni sono normalmente precedute dalla convocazione di assemblee o di consigli. Anche dal punto di vista socio-economico, la condizione dei notabili non è molto lontana da quella dei sottoposti. Questa debolezza del potere politico rappresenta, non meno dell’assenza di una casta sacerdotale, un evento decisivo per l’estetica, perché separa fin dall’inizio la nozione di eccellenza da quella di supremazia sociale. Infatti l’aristocrazia in Grecia non è tanto una classe o un sistema di governo, quanto un principio regolatore, un’idea che presiede alla domanda quale sia il miglior tipo di regime, da scegliersi tra la monarchia, l’oligarchia e la democrazia. I valori sono sempre espressi in termini aristocratici e – cosa di enorme rilievo – è l’aedo (non il capo politico) il giudice dell’eccellenza, colui che decide la reputazione e la trasmette ai posteri. La massima aspirazione di un capo dell’età omerica è quella di diventare celebrato nei canti dei poeti. Il peggio che gli possa succedere è che non si dica nulla di lui. Fin dall’inizio in Occidente la poesia assume un ruolo di assoluta preminenza nei confronti della politica. In altre parole, la letteratura a quell’epoca era un potere più grande della religione e della politica. Questo spiega tra l’altro perché perfino Cesare ed Augusto scrivessero opere letterarie. Nelle cento pagine centrali del romanzo di Hermann Broch, La morte di Virgilio (1945) il confronto tra la letteratura e la politica è illustrato in tutti i suoi drammatici aspetti. Tutto questo spiega le origini della cosiddetta “passione letteraria”: essere più forti della politica e della religione.
Storiette è un esordio o un ritorno?
Io provengo dalla letteratura, più precisamente dall’ermetismo. Poi sono passato al romanzo, ma mi è sembrato che con L’innominabile di Beckett, non fosse più possibile scrivere romanzi. Thomas Bernhard è ancor andato più in là. Nel 1968 ho pubblicato un piccolo romanzo, Tiresia, che avevo scritto qualche anno prima. L’unico ad accorgersene fu Enzo Siciliano. Di questo libro per più di cinquant’anni mi sono completamente dimenticato, o più precisamente l’ho rimosso. L’anno scorso una casa editrice argentina mi ha chiesto di tradurlo e pubblicarlo in spagnolo. Sono stato perciò costretto a rileggerlo e ho avuto l’impressione che a quelle epoca avevo una scrittura letteraria (ispirata da Lautréamont, Henry Miller e altri). Successivamente, tanti anni di saggistica di filosofia e di scienze umane, di giornalismo, di lezioni universitarie e di convegni me l’hanno fatta perdere. Spero di ripubblicarlo in italiano con un’appendice che in due parole, molto deleuziane, dice l’essenziale: DIVENIRE DONNA.
In che rapporto stanno Terrore e Ironia?
Probabilmente questi non sono i concetti più precisi per caratterizzare il libro Del terrorismo come una delle belle arti; mi riconosco più nella tendenza a pensare le cose nei loro esiti estremi (ma questa è una caratteristica della filosofia in generale), e in un specie di distacco emozionale nei confronti della vita, che ha origini nel pensiero degli antichi filosofi Stoici e nel Buddismo.
Quale è il suo giudizio sugli ultimi quindici anni di vita intellettuale e politica post 11 settembre?
Le rispondo con un aforisma dello scrittore polacco Stanislaw J. Lec:
“Gli uomini hanno riflessi lenti; in genere capiscono solo nelle generazioni successive”. Se, a mia conoscenza, manca ancora una storia (che è qualcosa di molto differente da una cronaca) del periodo che va dal 1968 al 2001, figuriamoci se esiste una storia! Ad ogni modo mi sembra che la cosa più importante sia stata la rivoluzione islamica iraniana del 1979 la cui onda lunga è molto utile per capire cosa avviene oggi. Quanto alla decadenza euro-americana bisognerebbe risalire alla fine dell’Ottocento, perché è là che vedo l’inizio: Nietzsche e Burckhardt lo avevano capito.
Cosa resta del Sessantotto italiano? Solo un simulacro? E quale senso ha un simulacro oggi?
La cosiddetta “contestazione italiana” comincia nell’autunno 1967 con l’occupazione dell’università di Torino e dura fino all’assassinio di Moro del 9 maggio 1978. Essa si articola in due momenti. Il momento di cesura è rappresentato dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. C’è dunque una prima parte “ingenua” e ”adolescenziale”. E una seconda parte che comunemente viene chiamata con l’espressione “anni di piombo” tratta dal titolo del film di Margarethe von Trotta. Questo secondo periodo ha riguardato oltre all’Italia, gli altri due paesi che avevano perduto la Seconda guerra mondiale (la Germania e il Giappone, dove però si è arrestata nel 1972). Mi sembra “un residuo karmico” della vera guerra civile italiana (1943-45). Quanto alla domanda di cosa resta: oggi i movimenti antagonisti (eco-anarchismo, deleuzismo, queer…), sembrano riallacciarsi alla prima fase. Io consiglierei: “Coraggio, prudenza, saper-aspettare e non fare errori… “ Così , prima o poi si ottiene tutto ciò che si vuole… in generale quando non lo si desidera più!
Cosa resta oggi di possibile della pratica situazionista?
Le tecniche artistiche e politiche situazioniste (per esempio la deriva, il détournement, l’aggressività oltraggiosa ed insolente) sono state integrate dalla società dello spettacolo. Diverso invece è il caso del principale animatore del movimento Guy Debord, di cui resta ciò che Nietzsche chiamava “il grande stile”: la presa di distanza nei confronti del mondo e qualcosa di ciò che gli antichi Greci chiamavano il deinón, che vuol dire terribile, ma anche portentoso, degno di rispetto, capace e abile.
Esiste ancora una distinzione tra fruitori e produttori di informazione?
Il fan non è un discepolo né un seguace, ma la cassa di risonanza acritica di una star dello spettacolo mediatico. Nel frattempo, col diffondersi della tecnologia informatica, è nata una nuova figura, quella del prosumer. Con questo neologismo, nato dalla contrazione delle parole producer e consumer, introdotto da Marshall McLuhan e Barrington Nevitt nel 1972, s’intende qualcuno che assume nei confronti dei materiali forniti dal mercato e dalla rete una condotta attiva, inserendoli in un contesto proprio e anche trasformandoli, senza tuttavia plagiarli.
Franco Cordelli recentemente ha di molto ridimensionato la figura di Alberto Moravia e ancor più quella di Pier Paolo Pasolini. Quale la sua posizione? Di Pasolini resta davvero solo un fraintendimento dato dall’esposizione del suo corpo?
Moravia scrive delle frasi brevi e facili da capire; quindi lo consiglio a quelli che vogliono imparare l’italiano. Inoltre mi ha fatto capire cos’è Roma. Si tratta di due argomenti che non riguardano il valore letterario. Di Pasolini apprezzo alcuni film: ho cercato a lungo di poterlo inserire in una storia dell’estetica italiana degli ultimi cinquant’anni, ma non ho trovato nessuna affermazione di poetica interessante e originale, ma solo tanti luoghi comuni. Sul valore letterario dei suoi romanzi non mi esprimo, perché sono stati sempre al di fuori delle cose che mi interessavano.
Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso è uno dei libri più intensi e sottovalutati di David Foster Wallace eppure tra i più emblematici e sottovalutati. David Foster Wallace è davvero tra i più interessanti autori visionari della sua generazione? Chi con lui?
Il libro pone molti problemi: tenga presente che il mio primo libro riguarda Il metaromanzo: quindi avrei troppe cose da dire su questa tecnica narrativa. Mi soffermerò invece sul film The End of the Tour – Un viaggio con David Foster Wallace di James Ponsoldt, che mi ha interessato soprattutto da un punto di vista sociologico. Mi sembra che sia capitato ad alcuni scrittori americani quello che è accaduto ai filosofi della French Theory della fine del secolo scorso: trasformati rapidamente in star da campus universitari non hanno sopportato di essere inglobati in una società dello spettacolo e dell’immagine che intimamente detestavano e perciò sono vissuti e morti male.
Il caso di Wallace è paradigmatico: isolatosi in montagna con due cani, sommerso dalla ipocrisia e dal peso del successo, alla fine si è ucciso. Io non so se vale la pena di leggere le milleduecento e ottanta pagine di Infinite Jest e in ogni caso non ne ho il tempo. Quanto ai suoi fan, mi viene in mente la sentenza di Baltasar Gracián, che faceva della concisione la più importante qualità letteraria: “I più non stimano ciò che comprendono, e venerano ciò che non intendono […] Sarà glorificato chi non sarà compreso. […] Lodano molti ciò di cui, interrogati, non sanno rendere ragione, perché tutto ciò che è recondito venerano come un mistero, e lo esaltano perché lo sentono celebrare” (Oracolo manuale, § 253).
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