Filosofia
Sull’impossibilità della valutazione del merito e a favore del merito
“Il nostro Cherubini è comunista perché è orfano e cerca nel partito il padre che non ha avuto”. C’è qualche algoritmo dal quale possa emergere che il professore di storia e filosofia, cieco di occhi e di anima, che cercò di spiegare così alla classe i fondamenti della psicanalisi, sia rimasto il più importante della mia vita? Forse il più meritevole. Questo esempio mi consente di intervenire sulla questione del merito sollevata su queste colonne da Matteo Saini dandogli insieme ragione e torto. Il merito e la meritocrazia non sono misurabili (parola di matematico), ma non per questo non sono valori imprescindibili.
Il post di Saini sulla non importanza del merito è interessante, e non vogliamo mancargli di rispetto dicendo che merita. Diciamo che il post è non demeritevole perché solleva le questioni reali della misurazione del merito, della sua corrispondenza a valori, della sua tendenza a creare conformismi. Io trovo che non sia meritevole per questioni che non solleva, e cioè come si possa identificare, e misurare, la presenza di non-merito, il fatto che il merito debba essere garantito proprio perché i valori sono relativi, il fatto che mentre la presenza di merito può generare conformismo, l’assenza di merito obbliga al conformismo, ed è il conformismo dei non meritevoli.
Il concetto che dal mio punto di vista manca nell’analisi di Saini, e che è indissolubilmente legato al merito, è quello di competizione. Meglio: è la possibilità di competere per chi ritiene meritevole competere. Chi ritiene meritevole dedicare più tempo alla famiglia che al lavoro, si potrà escludere dalla competizione sul lavoro, anche se ritengo che l’importanza che attribuisce alla famiglia lo porti a competere per lo sviluppo della sua famiglia. Ciò che è inconcepibile è che si siano zone della società in cui chi vuole competere non può farlo.
La domanda cui rispondere, in concreto e non riferendoci a schemi culturali che sembrano i soli a competere nell’analisi di Saini, è: rispetto al merito, che senso ha stabilire per legge che almeno il 20% dei professori universitari di nuova recluta debbano venire da un’università diversa da quella in cui lavorano? Vista dal verso giusto: che senso ha che fino all’80% dei posti possano essere riservati a chi è già in quella stessa università? L’unica risposta è tenere fuori qualcuno che “meriterebbe” quel posto. Una norma simile riconosce allo stesso tempo cos’è il merito, e ne limita l’applicazione. Questa contraddizione ci consente di misurare cosa non è merito. Inoltre, garantisco a Saini che regole come queste obbligano chi è dentro l’università al conformismo, e non solo con i principi, ma con le stesse mura nelle quali è cresciuto.
Se ci guardiamo intorno, evidenze empiriche di non merito fioccano ogni giorno. Pensiamo solo al dibattito sulla responsabilità dei giudici. Nessuno tiene in conto che l’assenza di responsabilità, o il fatto che la responsabilità dei propri atti ricada sugli altri, riduce l’attenzione e la cura del giudice nel valutare casi che oggi sono sempre più complessi, e che li portano in campi lontani dal loro sapere (finanza, sanità, catastrofi naturali). E’ lo stesso fenomeno che chiamiamo “azzardo morale” e di cui accusiamo le banche. Qui invece si ritiene che proteggere i più deboli, e i più scarsi, dal sopportare il costo delle loro azioni ne turbi la tranquillità. E chi ha detto che la tranquillità, e non l’attenzione, sia rilevante nello svolgimento di una qualsiasi attività umana?
La rilevanza del merito è legata alla rilevanza della competitività. Può essere eccessiva? Senz’altro sì. Il mio vecchio professore di filosofia di liceo è stato il più importante perché è stato il primo che mi ha aizzato (sì, aizzato come si aizzano i cani). Un periodo nel quale ero psicologicamente più debole perché era morto un mio amico sono stato sul punto di lasciare gli studi. Mi hanno aiutato tutti: mia madre e i miei compagni di partito. Mi dissero: “ma quale lavoro di massa, tu l’unico piacere che puoi fare alla classe operaia è studiare!”. Eppure quel professore resta l’unico che mi si sia opposto in tutta la mia carriera: per il resto ho avuto solo sperticati complimenti. E’ stato l’unico che mi ha detto, e ha cercato di convincere tutti, e anche me, di essere un grande bluff. E’ stata una lezione eccessiva? Forse sì, perché in quei giorni ho sofferto tanto. Ma per tutti i nemici che ho affrontato dopo avevo un metodo: prima, chiedermi se il bluff ero io, poi azzannare.
E’ stata un’educazione eccessiva alla competitività e al culto del merito? Mi sono chiesto molto spesso cosa sarebbe successo se la situazione fosse stata opposta. Se li avessi sempre trovati tutti contro di me, eccetto uno? E mi viene in mente un bambino delle elementari, completamente privo di capelli, che veniva continuamente sbeffeggiato dalla maestra. Che fine avrà fatto? Rimasi così colpito che ricorderei anche il cognome, ma non oso scriverlo. Io senz’altro avrei lasciato gli studi. L’avrei meritato? Forse l’avrei meritato, ma non per le ragioni per cui ricordo la maestre deridere pubblicamente questo compagno: per aver scritto “mi piace una marea”. Se qualcuno avesse scambiato allora la mia vita con quella del mio compagno, avrei avuto un’altra possibilità?
Non so se la competizione sia stata eccessiva, anche se devo riconoscere che ha avuto un costo: allontanarmi dalla filosofia, ritenermi inadatto e incapace, immeritevole. L’unico esame di filosofia della mia carriera avrebbe dovuto essere il primo e invece è stato l’ultimo prima della laurea. E i pieni voti non mi hanno guarito. Mi è rimasta sempre una specie di impotenza di fronte alla filosofia, come trasalgo ancora quando sento qualcuno dire “una marea” invece di “un mare”.
Comunque sia andata, la domanda oggi è: cos’è il merito. Saini ha ragione a dire che dipende dall’insieme di valori che ognuno ha. Chi ama il lavoro, chi preferisce la famiglia, chi dà la priorità alla società o alla religione. Ma è proprio per questo che il merito dovrebbe essere premiato, per consentire ad ognuno la propria realizzazione. Ovviamente con dei limiti: tagliare la gola agli infedeli dovrebbe essere considerato immeritevole, ma la questione di come imporre assiomi a un tessuto sociale invece che agli individui è un problema aperto.
Certo il merito non è misurabile e non è comparabile. Non è comparabile perché è allo stesso tempo un concetto interno ed esterno, settoriale e globale, corrente e futuro. Ritorno al caso personale. Il merito è interno e esterno: interno perché se lo dovessi misurare peserei i risultati che sono riuscito a ottenere nella ricerca (e quelli che intuisco in futuro), e il fatto che qualcuno all’estero li conosca e mi inviti a raccontarli. E’ settoriale e globale: io non posso comparare il merito che ho perseguito io con quello che ha perseguito un mio compagno di classe che fa il manager di prestigio, perché i termini di valutazione del merito sono diversi: obiettivi conseguiti e bonus per lui contro pubblicazioni e inviti per me. Non è nemmeno comparabile con una vecchia compagna della stessa classe che fa l’accademica di prestigio, ma in biologia, una settore molto diverso dal mio: abbiamo in comune le misure del merito, pubblicazioni e inviti, ma non ci sono criteri oggettivi per poter comparare i risultati, e per pesarli. Infine, il concetto di merito può essere corrente o futuro: uno può dare peso a una reputazione per un risultato marginale che nessuno ricorderà, o provare a scommettere su sviluppi futuri di una disciplina. Se il valore sono i soldi, uno può scegliere di sfruttare una possibilità di profitto corrente, o scommettere sulla creazione di un’iniziativa che duri per generazioni.
Per concludere, la discussione sul merito è centrale per la cosiddetta “buona scuola” di cui si è parlato e della “buona università” di cui si comincerà a parlare. Concordo con la tesi di Saini che ritiene impossibile la misurazione, e soprattutto la comparazione. Ciò non significa che dobbiamo escludere il merito. Alla radice della nostra divergenza su questo c’è una profonda differenza sulla concezione del lavoro e della creatività. Per me il lavoro, che è la ricerca, è fatica e competizione. Ritengo che ci siano esempi celebri che ci raccontano come anche l’arte sia frutto di applicazione e sofferenza. Quello che si fa con tranquillità per far passare il tempo è un hobby. Per questo per me la buona scuola resta quella shock con cui ho aperto questo pezzo. Riposa in pace, professore sergente, e grazie di avermi insegnato a difendermi: io non sono stato il tuo “palla di lardo”.
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