Filosofia

Contro Manlio Sgalambro

9 Marzo 2015

Gli aforismi di Manlio Sgalambro non sono di grande aiuto alla Sicilia. Non lo vogliono essere, peraltro. Lo spettacolo dello  sfacelo isolano non  preoccupa  Sgalambro né lo muove a pietà.  Anzi. Per chi ha scritto: «Voglio decadere… Non intendo migliorare niente. Spiava i sintomi di dissolvimento. L’ordine pervertito in cui viveva, aveva la sua approvazione» (Anatol, 1990), il collasso della Sicilia è motivo di funebre canto.

Sgalambro non “pensa” il mondo concreto – neanche ciò che si ritrova sotto i piedi-, e riesce a pensare alla  Sicilia, pertanto,  solo  se ridotta allo scheletro della metafora o dell’ idea: condizione  necessaria per eccitare  la sua penna e titillare il cinismo compiaciuto del suo linguaggio. Immerso nei noumeni non vede i fenomeni.

Piu’ l’oggetto del suo pensiero è”profondo”, astratto e siderale, più il reale circostante si stinge ed evapora. Spietato -nel senso letterale del termine – rentier, scettico blu («Non si può essere progressisti perché non c’è più dove andare. Non si può essere reazionari perché non c’è più dove tornare».- La morte del sole, 1982), quando gli è  occorso di  elaborare una Teoria della Sicilia (e qui il termine Teoria è, neanche a dirlo,  di conio tedesco, penso alla  Kritische Theorie della Scuola di Francoforte), lo ha fatto in termini à la  Qohe’let: nihilisti, ultimativi, definitivi.

Non posso pensare a Sgalambro – il nostro Cioran jonico – senza rievocare la metafora dell’Hotel Abisso da György Lukács  ne  La distruzione della ragione  adottata nei confronti di Schopenhauer, filosofo a lui consentaneo:

«…il nulla come prospettiva, il pessimismo come orizzonte di vita, secondo l’etica di Schopenhauer […] non puo’ affatto impedire, e nemmeno rendere difficile all’individuo una condotta di vita piacevole e contemplativa. Anzi l’abisso del nulla, il tetro sfondo dell’assurdita’ dell’esistenza, non fanno che aggiungere un fascino piccante a questo godimento della vita. Questo fascino viene ulteriormente accresciuto dal fatto che lo spiccato aristocraticismo della filosofia schopenahuriana innalza i suoi seguaci, nella loro immaginazione, di gran lunga al di sopra di quella plebe miserabile che è cosi’ ottusa da lottare e soffrire per un miglioramento delle condizioni sociali. Così  il sistema di Schopenhauer, costruito, dal punto di vista architettonico formale, con molto impegno e senso della composizione, si erge come un elegante e moderno hôtel fornito di ogni comodità, sull’orlo dell’abisso, fra piacevoli festini e produzioni artistiche, non può che accrescere il gusto di questo comfort raffinato»

Ora, quella martoriata terra, sballottolata tra rozzi mafiosi e iperdistillati  gattopardi, avrebbe bisogno anche (lo dico da diasporato, che ha fatto definitiva e irrevocabile scelta di abbandono del suolo natale)  di soccorrevoli pensieri concreti, lenitivi della pena di vivere, di viverci se vogliamo civettare con Heidegger : “pensare” le ASL, le ATO, i Municipi, le Scuole, gli Ospedali, tutte le forme esplose del vivere associati.

No? Dove sarebbe l’onta?

Ma per “pensare” tutto cio’ occorrerebbe quanto meno uscire dal sibaritismo intellettuale, dai solipsismi scintillanti, dai monologhi esulcerati e dagli aforismi raffinati. E provarsi a “pensare” l’altro. «L’altro? Non pronunciare più,  ti prego, questa parola»… (Anatol-Adelphi, Milano 1990)

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Post già apparso su “Il Calibro”

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