Filosofia

L’irragionevole speranza

29 Ottobre 2014

Le belle speranze, colme di giovanilismo e illusione, non fanno per noi. Non vogliamo saperne e non sappiamo che farcene. La speranza è uno dei concetti meno amati della nostra contemporaneità secolarizzata ma sempre buono quando si tratta di lanciare proclami, campagne elettorali e programmi per la creazione di consenso. Di marca paolina, insieme a fede e carità, è una delle virtù teologali che la nostra cultura ha ereditato dopo due millenni di cristianesimo e di cui vorrebbe liberarsi. La cifra del nostro tempo sembra essere sempre di più un amalgama di cinismo, risentimento, invidia e sarcasmo e, non appena qualcuno pronuncia il suo nome, subito una smorfia di scherno e di commiserazione si dipinge inevitabilmente sul volto dell’interlocutore . Come stupirsene? Invisa a Nietzsche e ai suoi glossatori, ha intrattenuto nel corso del Novecento un rapporto per nulla scontato con intellettuali e pensatori di ispirazione esistenzialista e marxiana, per scomparire poi, all’ombra della ragione postmoderna.

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Il conto però non torna ed è tutt’altro che chiuso; si può vivere senza speranza, certamente, ma non troppo bene.

 

Intesa esclusivamente come idea religiosa, come attesa passiva e fiduciosa, è stata rimossa e obliata ma la sua rimozione blocca l’azione. Non c’è nessuna profondità o intelligenza nel vivere senza e non è privo di importanza recuperarne un concetto nuovo e positivo, laico. Da non confondersi con l’illusione, la speranza non stabilisce una condizione di irrealtà, non è un errore dei nostri organi di senso, non è un travisamento cognitivo; determinata da un’assenza o da una mancanza di conoscenza, la speranza evoca un futuro con il quale non corrisponde, che chiama e non vede, in quanto è un sentimento del presente senza certezze, che si percepisce come energia inaspettata. Come una giocatrice esperta ama il rischio, con cui intrattiene un rapporto simbiotico.

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Irruzione di un altrove rispetto alle condizioni date, questa condizione desiderante consustanziale al quotidiano e fatta di lavoro, sogno e vita, rompe la routine del già dato e del fatto; con lei il pensiero oltrepassa il presente, lo forza e lo spinge alla trasformazione, allo sviluppo del possibile. Similmente all’immaginazione, con cui condivide la medesima linea di fuga trasformativa, la speranza è un improvviso dentro la norma e la consuetudine. Lontana dal fideismo e dall’ottimismo scientifico, non garantisce la realizzazione delle forme che appartengono al domani ma predispone positivamente all’azione.

 

Oggi, la sua figura del tutto irragionevole è intollerabile per le forze che promuovono la fede nell’algoritmo unico; nel regime del calcolabile, il suo nome rimosso ma non perduto è un segnale che comunica un’idiosincrasia profonda nei confronti del trasformativo, vero tabù della nostra cultura di inizio millennio che promuove i feticci del cambiamento e dell’innovazione, a patto di depotenziarne fin da subito le latenti implicazioni sovversive.

 

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Il nichilista è un pavido, paralizzato dal timore delle conseguenze delle sue azioni, incapace di mettere in discussione il pensiero comune di cui è insospettabilmente dipendente; per ciò non agisce. Chi lo fa è invece chi è in grado di sperare, di volere altro e di darsi da fare per la sua realizzazione, oltre la previsione ragionata, la proiezione razionale, il discorso dominante. Il conflitto, la lotta, l’emancipazione le devono molto, se è vero che si incontrano nella medesima costellazione, in un moto irrequieto e sorridente, fatto di utopia, immaginazione e desiderio.

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