Filosofia
La patata bollente: l’onere della prova e i suoi problemi
A chi tocca dimostrare qualcosa? Come facciamo a liberarci dell’onere della prova? A evaderlo, ad aggirarlo, a sbolognarlo, a scaricarlo su qualcun altro? Non è forse invece un dovere di chi partecipa alla discussione provare quanto afferma? Nel Galateo della discussione. Un codice di condotta, abbiamo affrontato la questione delle regole, attraverso un canovaccio. Abbiamo poi visto alcune tecniche (con relativi errori o violazione delle regole del Galateo): l’argomentazione basata sull’analogia, gli argomenti basati sulle minacce e una prima versione degli argomenti basati sul timore reverenziale di un superiore o di un esperto. XY, nel seguente articolo ci ha fatto vedere come si può violare la prima regola (detta “della libertà”), con la quale si afferma che non è permesso impedire a un interlocutore di presentare la sua posizione e di difenderla: l’insulto ha questa funzione. Squalificando l’interlocutore, invece della sua posizione e delle sue argomentazioni, rende impossibile la composizione, con metodo, di una divergenza di opinioni. Oggi, prendendo spunto da un articolo di Alessio Bottrighi nel quale si illustrava in modo perspicuo il metodo con cui si dovrebbe verificare una correlazione tra vaccini e morti “sospette” o vaccini e “autismo” (con relativa discussione e commenti), affrontiamo un ulteriore problema, che è ovviamente centrale in qualsiasi discussione: chi, esattamente, deve provare che quanto afferma è vero, o, almeno, altamente probabile e preferibile a posizioni alternative (si veda anche l’articolo precedente dello stesso autore e il commento a una nostra questione)? Se partiamo dall’obiettivo di risolvere una divergenza di opinioni rispettando il Galateo, chi avanza una tesi deve accettare di difenderla (regola dell’onere della prova), e chi la mette in dubbio deve essere pronto ad assumere il ruolo dell’antagonista. Certo, difficilmente chi critica una tesi rifiuta di spiegare perché, o di assumersi la responsabilità di ciò che dice (tuttavia, in condizioni difficili, può accadere, mettendo a repentaglio uno svolgimento ordinato della discussione: si insinuano dubbi e si nega di averlo fatto, per esempio). È però frequente che chi sostiene una tesi non ritenga di doverla difendere, o lo faccia malvolentieri. Chi avanza una tesi (lo chiameremo, con van Eemeren e Grootendorst, il protagonista) non può essere esonerato dall’obbligo di difenderla (onus probandi), a meno che non l’abbia già difesa contro una stessa obiezione da parte dello stesso antagonista. Siccome però spesso nuovi interlocutori che obiettano nei confronti di una posizione non si curano di vedere se alle loro opposizioni non si sia già risposto, l’argomentazione in favore di una tesi è come il supplizio di Sisifo… bisogna ricominciare sempre di nuovo, eventualmente anche contro gli smemorati. Naturalmente è possibile che la difesa precedente si fosse basata su punti di partenza, accordi, dati di fatto che, ora sono mutati, quindi è naturale che le conclusioni vengano rimesse in discussione. In quali altri casi è possibile non difendere la propria tesi? Per esempio, quando con l’interlocutore/antagonista non è possibile trovare un punto di partenza, una premessa comune, un dato di fatto da cui partire, o quando questi non è disponibile a seguire regole condivise, o le viola appena può. Anche una discussione con un interlocutore simile sarebbe un supplizio (e una perdita di tempo, salvo quando in realtà l’obiettivo è convincere un terzo al di sopra delle parti, un giudice, per esempio). Quindi, dato un disaccordo, se non sono date le condizioni necessarie per tentare di superare la divergenza, è inutile mettersi a difendere una tesi, o attaccarne una. Ciò detto, in quali altri modi si manifestano violazioni di questa regola dell’onere della prova? Innanzi tutto, qualcuno potrebbe presentare la propria posizione come se fosse autoevidente. “È ovvio che…”, “Nessuno che sia sano di mente si sognerebbe mai di negare (o affermare) che…”, “È ovvio che…”. Certo, dopo aver argomentato, una conclusione potrebbe essere anche ovvia, ma una posizione è sempre discutibile, e mai ovvia. Presentare qualcosa come ovvio (mantenendo impliciti eventuali punti deboli), mira a impedire la discussione e a sopraffare il proprio interlocutore, che potrebbe non riuscire a presentare i propri dubbi. Un secondo modo di violare questa regola dell’onere della prova è quello di presentare qualcosa fornendo una garanzia personale: “Ti assicuro che è come dico io…”, “Non ti fidi di me?”, “Sono assolutamente convinto di quel che dico”. Com’è ovvio, tanto più l’interlocutore è “convinto”, tanto meno sentirà il bisogno di argomentare, ma, parimenti, tanto meno ha argomenti a disposizione, tanto più è possibile che dichiari di essere convinto (aggiungendo magari una violazione ulteriore del Galateo: alcune opinioni sono indiscutibili, con il che si viola la regola della libertà di opinione). Un terzo modo è quello di immunizzare la tesi contro qualsiasi critica, perché non è possibile sottoporla a verifica, per esempio, utilizzando affermazioni generiche e indimostrabili come “Gli italiani sono mafiosi”, “Le donne sono troppo emotive” o simili. In effetti, affermazioni del genere sono solo pregiudizi, basati su qualche esempio scelto ad hoc (trascurando i casi contrari, che sarebbero solo eccezioni, invece di considerarli come una prova della falsità della tesi). Su questo modello (spero avremo l’occasione di tornarci) si basano anche le argomentazioni dell’efficacia delle terapie omeopatiche. In definitiva, cosa può accadere quando l’onere della prova non è sopportato da chi di dovere? Sostenendo una tesi, il protagonista si rifiuta di difenderla e pretende dall’antagonista a) di individuare lui eventuali punti deboli oppure b) di dimostrare lui la tesi contraria (non dimostra che Dio esiste, ma chiede all’interlocutore a) di dimostrare che è sbagliato sostenere che Dio esiste oppure b) di dimostrare che Dio non esiste), scaricando così l’onere della prova sull’interlocutore. Oppure, presentando la propria tesi come autoevidente o garantendo personalmente per essa (o giurando sulla “testa dei propri figli”, o dicendo “che mi venga un colpo se…”), o immunizzandola da qualsiasi critica, evade l’onere della prova. In tutti questi casi, qualcosa non funziona, occorre perciò rimettere in carreggiata una discussione che è uscita di strada. Logon Didonai Riferimenti bibliografici: Frans H. van Eemeren, Rob Grootendorst, Una teoria sistematica dell’argomentazione. L’approccio pragma-dialettico, Mimesis, Milano 2008.
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