Filosofia
Il Galateo della discussione. La “prova” dell’esperto in tribunale
Chi di noi non ha mai fatto ricorso alle opinioni (più o meno motivate) di un esperto (in qualsivoglia campo) prima di prendere una decisione? Perché stupirsi se lo fanno anche i giudici (anche se poi scelgono l’esperto sbagliato, come nella presunta correlazione tra vaccini e autismo, in realtà una bufala colossale).
Abbiamo precedentemente introdotto il problema del fragile argomento d’autorità, che nella sua forma fallace è detto ad verecundiam (perché ci vergogniamo di usare la nostra testa e diciamo: l’ha detto l’esperto X). Oggi ci torniamo sottolineando che si tratta di una presupposizione (universale o statisticamente rilevante): l’opinione dell’esperto si suppone vera, anche se, in linea di massima sono consentite eccezioni.
La forma tipica dell’argomento è la seguente: «L’esperto E sostiene una determinata tesi A essere vera. L’esperto E è un’autorità sul determinato soggetto di cui fa parte A. C’è consenso tra E ed altri esperti. Quindi, c’è una presunzione di verità per la tesi A sostenuta dall’esperto E».
Questo ragionamento non è conclusivo con necessità, infatti è valido fino a che non abbiamo le prove del contrario. Quali sono le condizioni perché una conclusione di questo tipo sia attendibile?
In primo luogo il giudizio dell’esperto deve essere formulato all’interno del suo campo di competenza; in secondo luogo l’esperto deve essere legittimato in quanto tale e non in quanto celebrità; in terzo luogo bisogna sapere quanto autorevole è in quel settore (le specializzazioni sono molto importanti); in quarto luogo bisogna risolvere eventuali disaccordi tra i diversi esperti; in quinto luogo, qualora ci fossero delle prove a sostegno della tesi occorrerebbe prenderle in considerazione (e un esperto dovrebbe saper replicare basandosi sulle prove concernenti quel campo di specializzazione nell’ambito del quale è esperto e del quale si parla); infine, ciò che dice l’esperto dovrebbe venire interpretato correttamente (Walton, 1989).
Ma se riflettiamo su queste condizioni se le consideriamo altrettante premesse, il nostro ragionamento presuntivo inizia a complicarsi. In ogni caso, violata una delle premesse aggiuntive, possiamo sostenere che la presunzione di verità si indebolisce.
Cosa succede quando in tribunale si fa ricorso a una prova basata sulla testimonianza dell’esperto? Be’ iniziano i problemi.
Tanto nei processi di tipo adversarial o “accusatorio” (basati sulla disputa tra le parti e sulla norma del precedente vincolante) presenti nel sistema giuridico anglo-americano di common law (diritto consuetudinario), quanto in quelli di tipo inquisitorio (basati sull’indagine del giudice) presenti nei sistemi di civil law (diritto civile europeo continentale) l’uso degli esperti è ormai diventato normale: medici, psicologi, esperti di balistica, scienziati di ogni tipo affollano le aule dei nostri tribunali. Così, se uno psicologo attesta l’incapacità di intendere e di volere di una persona questa può vedersi risparmiare il carcere. Se un medico attesta che l’ex dittatore Pinochet, a causa dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, non è in grado di sostenere un processo, il processo non può avere luogo (a meno che Pinochet, una volta tornato in Cile e accolto con tutti gli onori dall’esercito, non si metta a ballare di fronte alle televisioni di tutto il mondo).
L’appello alla testimonianza dell’esperto è ormai diventato una forma di evidenza processuale. Ma quali sono i limiti di tale consuetudine? E quali i limiti del potere degli esperti? Come possono i giudici essere in grado di valutare gli infiniti campi del sapere nei quali la loro competenza è minima? Del resto, anche la testimonianza potrebbe essere creata ad arte, magari in “buona fede” (come ha insegnato Elizabeth Loftus).
Immaginiamo che un padre venga accusato di molestie sessuali nei confronti del figlio o della figlia. Come si può essere giunti a ciò? Di fronte a problemi psicologici del bambino uno psicologo potrebbe essere indotto a pensare ad abusi sessuali, e potrebbe insistere fino a convincere il bambino o la bambina di essere stato davvero vittima di abusi, magari sottolineando che il fatto di non ricordarsi di quanto è avvenuto è un normale caso di rimozione di un’esperienza traumatica. Potrebbe iniziare a descrivere una scena di abuso, nei minimi dettagli, o chiedere alla bambina di immaginarne una, così come sarebbe potuta essere. Potrebbe giungere a creare, attraverso tali insistenti, vivide descrizioni, un ricordo fittizio ma efficace, più reale della realtà stessa. Ebbene, su tale testimonianza di una bambina persuasa da un abile psicologo di aver subito molestie sessuali, si potrebbe condannare una persona. In generale, si potrebbe condannare in base a una confessione o a un ricordo immaginato. In molti casi, come in quello dell’omicidio di Bibi Lee e della condanna del fidanzato Brad Page in base a una confessione indotta dalla polizia, è successo (Pratkanis & Aronson 2003).
Ma come distinguere la finzione dalla realtà? Talvolta si tratta di un errore di definizione: si prende una cosa (l’emozione) per un’altra (un’asserzione menzognera) sulla base di una discutibile teoria scientifica.
Consideriamo per esempio un esperto della cosiddetta macchina della verità, la quale non è altro che un sistema in grado di individuare se una persona prova delle emozioni (nervosismo, paura, angoscia) mentre parla o sostiene qualcosa, magari di essere stata altrove nel momento in cui veniva uccisa una giovane donna. Un esperto di questo tipo sarà in grado di dirci che l’individuo mente, e quindi cercherà di farlo parlare, di individuare le contraddizioni nel suo alibi, fino a farlo crollare (o fino ad aver convinto la giuria che è quello il colpevole ricercato). Ma una macchina della verità ci dice solo se una persona è agitata, se suda, se il suo battito cardiaco si fa più veloce, non se questa persona ha detto la verità. La risposta che la macchina ci dà (emotività dell’interrogato) non è quella che ci dà l’esperto (l’interrogato non ha detto la verità).
Fatto ancora più grave, nelle corti americane gli esperti sono pagati dalle parti, sicché è la parte che può permettersi di pagare di più a ottenere spesso gli esperti migliori, ma, soprattutto, in un tribunale gli esperti non fanno altro che trovare argomenti e prove per la loro parte, non certo per la verità. Spesso gli esperti sono dipendenti più o meno “fissi” di una società, nel senso che sono sempre loro a rappresentarla e sono i loro esperti “esclusivi”. Che valore può avere una tale testimonianza, a livello legale, se non è suffragata da prove?
È il giudice, o la giuria, a dover decidere quale degli esperti in contrasto è il più attendibile, quale testimonianza è quella più forte. Può farlo iniziando a porre delle domande mirate, in un vero e proprio controinterrogatorio condotto da un avvocato. Volendo intaccare l’aura di oggettività dell’esperto potremmo chiedere se per caso ha qualche interesse finanziario, se è remunerato per i suoi servizi, se è un dipendente della parte in causa o se ha già testimoniato per lo stesso avvocato o per la stessa parte in causa (Walton 1989).
Occorre però andare oltre, riuscendo ad attaccare i punti deboli della tesi sostenuta, individuando non solo i pregiudizi o le presupposizioni sulle quali si basa, ma investigando lo stesso metodo di ricerca utilizzato dall’esperto. Può sembrare al di là della portata di un non esperto, ma solo così facendo si può riuscire a stabilire quale dei diversi esperti abbia “ragione”, e a fondare il proprio giudizio, la propria valutazione del singolo caso su qualcosa di più che non sull’abilità persuasiva (ovviamente, occorre anche riconoscere le tecniche della persuasione e della manipolazione utilizzate dalle parti).
Un esperto, in un processo, potrebbe citare i propri studi, magari gli articoli pubblicati, per fondare il suo diritto ad apparire esperto, ma se scoprissimo che tali articoli non sono riconosciuti come importanti dalla comunità scientifica la sua autorità ne sarebbe indebolita. Se questi, poi, fossero inesistenti, essa sarebbe nulla. Lo stesso accadrebbe se un esperto, in uno degli ambiti di specializzazione della medicina, facesse riferimento sempre e solo a studi altrui ormai datati, o riconosciuti come erronei, o falsi.
Un altro problema, poi, è che spesso la stampa riconosce come esperti solo alcuni di coloro che sono esperti, e forse quelli più comprensibili o più abituati alla divulgazione. Riprendiamo una questione generale. Chi viene citato? Molto spesso personaggi famosi, magari esperti nel loro campo, ma non gli unici, e magari la loro tesi è controversa, non universalmente riconosciuta, ma i giornalisti non ne citano altre, forse perché questo personaggio è il più controverso o provocatorio (se simili personaggi diventano famosi è spesso perché le loro tesi sono volutamente in contrasto con quelle stabilite) – anche se non deve essere necessariamente un comico genovese.
Magari la loro tesi è citata in modo semplificato, incompleto, ma un giudice non può permettersi tutto questo (e non dovrebbero permetterselo nemmeno dei giornalisti). Una valutazione superficiale di un esperto può infatti avere conseguenze drammatiche. In tribunale un uomo o una donna possono essere condannati (in alcuni Paesi persino a morte) in base a un’autorità che, forse, tale non è.
Ecco perché è fondamentale individuare un modo, efficace, per valutare quanto dicono gli esperti. In definitiva, perché diciamo che un esperto è esperto? Perché ha una certa esperienza del campo che noi profani non abbiamo, e quindi sa come muoversi, scartando elementi (prove) irrilevanti e individuando quelli corretti, perché, in definitiva, sa interpretare i casi.
Forse dovremmo imparare anche noi.
Logon Didonai e Leguleio Azzeccagarbugli
Riferimenti
Walton D., Informal Logic. A Handbook for Critical Argumentation, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 1989.
Pratkanis A.R., ARONSON E., (2003) L’età della propaganda. Usi e abusi quotidiani della persuasione, Bologna.
Sulle false memorie si veda l’intervista a Elizabeth Loftus, così come i suoi libri:
Eyewitness testimony: Civil & Criminal, 4th edition. Loftus, E.F., Doyle, J.M. & Dysert, J. (2008) Charlottesville, Va: Lexis Law Publishing.
Witness for the Defense; The Accused, the Eyewitness, and the Expert Who Puts Memory on Trial Loftus, E.F. & Ketcham, K. (1991) NY: St. Martin’s Press.
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