Famiglia

Viva le unioni civili, perché la Storia la scrivono anche le leggi imperfette

11 Maggio 2016

Alla fine è successo, è successo perfino in Italia. Anche il nostro paese ha una legge sulle unioni civili per le persone omosessuali. Dieci anni almeno di attesa dal primo iter parlamentare seriamente incardinatosi. Anni di crescita della coscienza civile e dei cittadini, che hanno reso patetiche le difese più retrive della parte più retriva della classe dirigente politica italiana. E hanno aiutato ad archiviare con maggiore serenità, o almeno minore patema, i legittimi lamentii dei vescovi. Legittimi, diciamo, come legittimo è non tenerne in conto quando si legifera.

Dunque, è successo, ed è un successo alle condizioni date: quelle politiche, quelle parlamentari, quelle sociali. Quelle di un parlamento in cui il Partito democratico non è maggioranza, e anche al suo interno appena pochi mesi fa si esprimevano mal di pancia e resistenze su alcune parti della legge, tanto che lo stralcio della stepchild adoption nel passaggio in Senato è stato sì reso necessario dalla defezione dell’improbabile alleato grillino, ma a sua volta l’indispensabilità dei Cinque stelle è tale a causa di un pezzetto di democratici che sulle adozioni non ci sentivano, da un lato, mentre dall’altro c’erano gli amici di Ncd a confermare il loro diniego.

E insomma, alle condizioni date, nel contesto politico in cui siamo, questo resta un passaggio storico, perché segna un prima e un dopo che possiamo considerare con buona sicurezza irreversibile. È tanto? Per chi scrive no, è il minimo sindacale e anzi sembrerebbe giusto lavorare da subito per equilibri più avanzati, perché non si vedono più ragioni razionali per non riconoscere i matrimoni omosessuali. Ma non è poco, perché, appunto, prima c’era il niente. Registriamo e comprendiamo il malessere, la festa strozzata, di tanti esponenti del mondo dei movimenti per i diritti LGBT, che vedono andare in porto una legge mutilata, privata di alcuni assi portanti e in cui i più deboli – i bambini – non trovano posto nello spettro dei diritti che devono essere riconosciuti. È un sentimento sincero e onesto, il loro, e non può essere trattato come un capriccio, se si è in buona fede. Non capiamo invece i toni trionfanti della propaganda in servizio permanente ed effettivo, che però fa solo il suo mestiere. Stando fuori dalla mischia, come non esitammo a criticare Renzi per la cattiva gestione politica della legge fino al suo passaggio in Senato, non manchiamo però di riconoscere al Governo di averla voluto portare a casa, intestandosela, fino ad utilizzare il voto di fiducia.

Non riusciamo invece a capire chi oggi celebra l’approvazione della legge come se fosse una legge drammatica, distruttiva, discriminatoria. Istituisce i primi diritti, e appunto consegna un paese un po’ meno indecente a tutti noi. È vero, partiamo da un paese che ha mille ritardi accumulati: ma iniziare a smaltirli, per quanto tardivamente, è l’unico modo per cominciare a non avere più alibi, a non sembrare bravissimi perché si fanno cose normali, a non sembrare statisti perché si fa qualcosa dopo decenni di inazione. È questa, naturalmente,una base da cui partire, per fare meglio, molto meglio, a colpi di lotte sociali, rivendicazioni, organizzazioni dei corpi intermedi. Il contesto si chiama democrazia, il processo si chiama riformismo: con tutti i suoi limiti, non abbiamo ancora trovato un’alternativa.

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