Famiglia
“Surrogati” e il diritto a un bimbo: ma non chiedeteci di essere felici per loro
A un minimo di sorpresa, nel vedere che nel primo pomeriggio la notizia del bambino di Vendola aveva scalato le gerarchie dei siti di informazione piazzandosi appena dietro il Papa, è subentrata purissima malinconia quando, intorno alle sette di sera, si è fatta prepotentemente largo conquistando la vetta, grazie anche alle parole gentili di Salvini, Gasparri, Adinolfi, all’indirizzo del neo papà. Che poi papà non sarà in Italia, appartenendo il seme, così dicono le cronache, al suo compagno. Nichi e il suo compagno sono dunque andati all’estero, in un estero dove la maternità surrogata è regolata per legge, dove si paga regolarmente una donna a cui subito dopo il parto viene sottratto il neonato e consegnato ai “nuovi” genitori.
C’è una terra inesplorata all’interno di ognuno di noi, che contempla una pluralità di sentimenti anche un po’ borghesi che sono la summa di tutte le nostre contraddizioni. Summa che nel Parlamento italiano si è fatta pateracchio per molti mesi, per poi assumere forma dignitosa e semi-compiuta a legge approvata. Ma insomma, tanto per non girarci intorno: che cosa succederebbe in buona parte dell’Europa del Nord, l’Europa del welfare più significativo, con il bambino di cui Vendola non è padre? Che depositato l’atto anagrafico californiano o canadese che sia (qui i siti sono contrastanti), automaticamente il buon Nichi sarebbe padre. Il che significa che in quei Paesi, che vietano la maternità surrogata, però ci si occupa per legge dei bambini che “ci sono”, “che arrivano”, perché abbiano da subito una definizione familiare compiuta.
Si può dire che questi Paesi chiudono (in parte) gli occhi su un aspetto che può essere considerato molto controverso come la maternità surrogata, negandola per legge ma “subendone” le conseguenze, e li aprono solo quando c’è da esaminare lo sviluppo sociale delle proprie comunità e che questo aprire e chiudere gli occhi potrebbe forse apparire come schizofrenico? Certo, si può dire. È una grande ipocrisia? A voi il giudizio. Ma sicuramente è molto, molto, più avanti delle nostre non-decisioni, che vietano sì quella pratica ma che poi fanno finta di nulla sui bambini che ne derivano. Giusto per farsi una domanda ingenua: ma di chi sono questi bambini che arrivano in Italia da un altrove controverso, sono forse, come si diceva un tempo, «figli di nessuno»? Per legge sì, per un cinquanta per cento sono anagraficamente figli di nessuno.
C’è anche, inutile negarlo, una striscia di terra molto tormentata in cui è difficile mantenere serenità ed equilibrio. Si potrebbe dire, a buon diritto, e molti lo dicono: perché un Paese sovrano, autodeterminato, consapevole delle proprie leggi, che vietano per esempio la maternità surrogata, dovrebbe farsi carico di chi, aggirando quella legge italiana, e con più di qualche migliaia di euro a disposizione, riporta in Italia il frutto (amato, amatissimo) di un’evidente forzatura? Perché un cittadino italiano consapevole della struttura del proprio stato e delle sue leggi, decide di ottenere ciò che in Italia gli sarebbe vietato con una circumnavigazione socio-demografica? Avere un bambino è un diritto a tutti i costi? Altro sarebbe se la legge italiana negasse un diritto primario ad avere un figlio, ma non è questo il caso. Nella vicenda della maternità surrogata, la legge vieta ciò che ritiene uno sfruttamento, un disequilibrio sociale, la prevaricazione di un forte su un debole.
Le coppie, eterosessuali o omosessuali, che decidono in tutta coscienza di avere un figlio all’estero con la maternità surrogata, hanno diritto che il frutto del loro amore abbia da subito una configurazione sociale come nei Paesi più civili. Una mamma e un papà, due mamme, due papà, importa poco. Ciò che invece non possono pretendere è che la società sia obbligata a comprendere, a condividere, a “essere per forza felici per loro”. Rimane un dubbio, che poi è un enorme tormento.
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