Macroeconomia
Euro, Europa e Sinistra: la parola chiave è “condivisione dei rischi”
In questi giorni di tensione crescente che ci stanno conducendo a tappe forzate verso la tornata elettorale più problematica di sempre per l’Eurozona, un vecchio mantra, logoro e abusato, si aggira per l’Europa: l’idea di spingere a tappe forzate verso una più avanzata integrazione economico e finanziaria. Dagli “5 scenari per l’Europa” presentati dal Presidente della Commissione Europea Juncker financo alle dichiarazioni del ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble, l’euro-burocrazia sta tornando a spingere su un vecchio tasto. Un concetto su cui, a chiacchiere anche le forze di sinistra di matrice europeista sono (quasi) tutti d’accordo. Bisogna però avere consapevolezza che nei fatti si aprono dei baratri tra la visione “istituzionale” ed un progetto di integrazione che punti realmente “a sinistra”.
Il principio che le parti in causa si contendono può riassumersi in un unico termine, in grado di declinare quella che di fatto è l’unica visione possibile per la sopravvivenza del progetto Euro: la condivisione dei rischi (il risk-sharing). Il successo del progetto dell’Unione europea è un investimento di capitale politico e morale enorme per la Sinistra, che di fatto ne definisce gli intenti e le azioni degli ultimi 20 anni.
Il risk-sharing è un concetto a dire il vero piuttosto banale: un’unione monetaria può avere una chance di funzionare solo attraverso una piena condivisione dei rischi, sia in ambito finanziario che sul piano delle politiche per la crescita e l’occupazione. Questo implica necessariamente la creazione di un bilancio federale europeo, la mutualizzazione del debito pubblico a livello comunitario, trasferimenti fiscali tra Paesi core e periferici e l’istituzione di una garanzia europea sui depositi bancari.
Da questa impostazione si distaccano poi le proposte ancillari: l’idea di uno schema comunitario di assicurazione contro la disoccupazione, alla garanzia unica sui depositi fino al principio di una più rigida applicazione delle procedure di infrazione nei confronti dei Paesi in surplus commerciale. Il risk-sharing investe in senso ampio sia la politica fiscale che quella monetaria; qualche settimana fa ho proposto in queste pagine una revisione critica di molte regole nella prospettiva di una maggiore mutualizzazione dei rischi. In ogni iniziativa, il risk-sharing rimane l’elemento imprescindibile di un credibile percorso di integrazione. Una garanzia comune per il neonato Fondo unico di risoluzione bancaria sarebbe l’obiettivo più immediato ed a portata di mano, dato che il Fondo potrebbe trovarsi a non avere le risorse necessarie per gestire le crisi. Ipotesi non campata in aria, se si considera che alcuni analisti hanno stimato che sarebbero serviti fino a 100 miliardi per affrontare la crisi del 2008.
Pare strano che anche il Fondo Monetario Internazionale, storicamente arroccato su posizioni neo-liberiste ortodosse nelle sue ultime prese di posizioni ufficiali ha ribadito la necessità di sfruttare quanta più flessibilità (il c.d. fiscal space) sia possibile, evidenziando come i Paesi più bisognosi di un’espansione fiscale siano quelli più indebitati e con meno malleva. Da qui la necessità di un “supporto centralizzato con funzione stabilizzatrice”, un eufemismo per affrontare il tema tabù degli Eurobond e di un bilancio federale da utilizzare in senso anticiclico.
Che una reale condivisione dei rischi non piaccia all’euro-nomenclatura è acclarato: in passato qualsiasi richiamo è stato evitato sempre come la peste nelle dichiarazioni ufficiali franco-tedesche e dell’euro-burocrazia. Lo stesso Mario Draghi si è limitato a definirla “non fondamentale” ed infatti tutta l’impalcatura del Quantitative Easing è stata costruita sull’idea che ogni Paese si tiene i rischi dei titoli governativi in casa propria, in ossequio alla visione ultraortodossa della Bundesbank (BUBA).
Vale la pena ricordare come sia stata proprio la strenua opposizione da parte dell’ala oltranzista della Bundesbank all’implementazione del meccanismo unico di assicurazione dei depositi e ad una garanzia comune per il Fondo unico di risoluzione bancaria che ha portato il sistema bancario europeo sull’orlo di una crisi che va oltre i semplici problemi di liquidità. L’assenza di una “gestione centralizzata” della domanda (nel gergo del FMI: un bilancio condiviso) ha aggravato la situazione di scarsa crescita del PIL e di basso livello degli investimenti. Nonostante l’evidenza controfattuale sia schiacciante, fino ad ora lo storytelling ufficiale delle istituzioni europee ha continuato a spingere sulle stesse corde: la necessità promuovere le “riforme strutturali” dal lato dell’offerta e di rispettare ad ogni costo lo schema contabile del “Fiscal Compact”. Una posizione granitica, evidenziata dalla grammatica dei discorsi di Mario Draghi, quasi tutti sovrapponibili alla lettera su questi temi.
Ma se non c’è equa ripartizione dei rischi, su cosa si fonda il processo di integrazione che Bruxelles sta cercando di rilanciare? In fondo anche l’asse franco-tedesco sta spingendo verso l’Unione Bancaria, un budget unico, il super-ministero delle Finanze ed una più fitta armonizzazione in tema di imposizione fiscale. Si tratta a ben vedere di un’integrazione “per sottrazione”, tesa inesorabilmente alla sottrazione di poteri e competenze dalle autorità nazionali verso organismi sovranazionali e non rappresentativi, tramite “riforme strutturali”. Non a caso uno dei sogni proibiti di Schäuble era un’agenzia europea di supervisione dei bilanci pubblici che avesse poteri diretti nei confronti dei governi e fosse svincolata dalle influenze della politica: purtroppo per lui l’istituendo “European Fiscal Board” si limiterà invece a soli poteri consultivi sotto il controllo della Commissione Europea.
L’ostilità verso la mutualizzazione dei rischi diventa poi esplicita su temi più sensibili: il divieto verso la garanzia unica per i depositi, o il trattamento contabile dei titoli di Stato dove lo stesso Presidente del meccanismo di supervisione unico Danièle Nouy auspica una discriminazione dei titoli più “rischiosi” (cioè i BTP). Tradotto in cifre da un lavoro di Mediobanca del 2016, questo corrisponderebbe ad almeno 5 miliardi di € di capitalizzazione aggiuntiva per le nostre malridotte banche. Spicca infine per adamantina coerenza la “riforma” proposta dal Presidente BUBA Weidmann che vorrebbe la ristrutturazione automatica dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà: un bail-in sul debito governativo insomma, dove pagano gli investitori e non il Fondo Salva-Stati. A che serva in quel caso un Fondo Salva-Stati che non salva i governi vale la pena chiederselo.
Il progetto “più Europa” che la Commissione Europea sta cercando di rilanciare prevede dunque riforme volte a consolidare lo status-quo, cioè un’Unione monetaria a trazione tedesca che trasferisce in maniera molto efficiente risorse economiche dalla Periferia al centro: bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è. Ironicamente, questo dovrebbe avvenire in ossequio ai principi generali della shock economy che hanno imposto nei Paesi periferici tagli alla spesa pubblica, alle pensioni ed al livello delle retribuzioni per il “bene” dell’unione monetaria (ce lo chiede l’Europa).
La sinistra europea dovrebbe pertanto essere consapevole del vicolo cieco in cui si stanno cacciando le istituzioni: le riforme che Commissione, Eurogruppo e BCE auspicano non salveranno l’Euro e la Sinistra non le dovrebbe avallare. Euro e risk sharing sono facce della stessa medaglia: senza condivisione dei rischi ci aspettano altre crisi, inevitabilmente uguali alle precedenti.
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