UE

Oltre 1.200 miliardi, ecco i rischi del quantitative easing

22 Gennaio 2015

Mario Draghi ha appena annunciato il quantitative easing della Banca centrale europea: «Un vasto programma di acquisto di titoli» da 60 miliardi al mese «almeno fino a settembre 2016», per un totale di almeno 1.260 miliardi di euro. Questo piano, chiamato “expanded asset purchase programme” , «vedrà la Bce aggiungere i titoli sovrani al programma di acquisto di titoli del settore privato già in essere […]». La Bce deterrà l’8% degli acquisti “addizionali”, il resto sarà acquistato dalle banche centrali nazionali.  «Ciò implica – si legge in un comunicato della Bce – che il 20% degli acquisti di titoli addizionali saranno soggetti a un regime di condivisione dei rischi».

La Bce si accinge dunque a lanciare il programma di quantitative easing, sviluppando la politica di acquisto dei titoli emessi da privati (covered bond e cartolarizzazioni) nella direzione inevitabile e prevista: l’acquisto di titoli pubblici. Era chiaro fin dall’inizio che i titoli del settore privato non sarebbero stati abbastanza. Ma la discussione sulla decisione della Bce si è sviluppata in una torre di Babele sui fini e sui mezzi, ed è diventata un terreno di scontro tra stati invece che un dibattito sulla politica monetaria dell’area euro. E le posizioni portano verso rischi in direzione ostinata e contraria.

Nella discussione sui fini si sono mischiati concetti della politica monetaria tradizionale con aspirazioni e aspettative bizzarre e originali, se riferiti allo strumento di politica monetaria. Si è verificato un po’ quello cui siamo abituati ad assistere nella nostra vita politica, quando si approfitta di una legge che sta per essere approvata per nasconderci dentro norme per secondi fini, per risolvere qualche problema locale invece di servire l’interesse collettivo.

La principale ragione del QE sta nel fatto che la Bce ha tradizionalmente un bilancio anoressico, che richiede di essere nutrito costantemente come un “tamagochi”. Riesce a aumentare il suo bilancio soltanto con iniziative temporanee e a breve termine che devono essere costantemente rinnovate. Con il QE la BCE si vuol trasformare in un tipo di banca centrale con un bilancio robusto, e pieno di proteine, sul modello della Federal Reserve e della vecchia Banca d’Italia. Per questo i titoli privati, sebbene di qualità verificata, non bastano, come apparve subito chiaro alla prima conferenza stampa quando Mario Draghi lanciò il programma. La riserva di titoli pubblici fornisce una quantità abbondante di alimenti, ma, a differenza di quanto succede per la Federal Reserve, la materia prima non è tutta della stessa qualità, e l’assunzione diretta di queste proteine rischia di portare dentro la BCE sostanze più tossiche di quelle che ha cercato accuratamente di evitare nell’acquisto di titoli privati.

Il fine di avere un attivo di bilancio più robusto è quello della politica monetaria di sempre, cioè il sostegno dell’attività dell’economia. I canali di trasmissione della politica monetaria sono da sempre stati quelli della “money view”, la liquidità che dovrebbe pervadere l’economia e ravvivare la domanda, e la “credit view”, il credito che dovrebbe raggiungere le imprese tramite le banche. Oggi il fine più modesto è quello di creare almeno un po’ d’inflazione, visto che la crescita reale è ancora latitante. Il fine è immettere nell’economia un po’ di colesterolo, e in mancanza di colesterolo buono, anche un po’ di grassi saturi sembrano un obbiettivo salutare.

Eppure, sebbene Mario Draghi abbia ripetuto in tutte le lingue e a tutte le testate la verità del fine del proprio intervento, nel dibattito, anche tra esperti, si sono aggiunti fini diversi, che vanno ben oltre le intenzioni di Draghi, e che effettivamente cambierebbero drasticamente l’aspetto e il ruolo della Bce, e inaugurerebbero un esperimento di banca centrale radicalmente nuovo e assolutamente fuori da ogni schema. Si suggerisce da più parti che uno dei fini del QE sarebbe il “risk sharing”, cioè la condivisione del rischio tra i paesi. E si attribuisce alla politica monetaria il ruolo di governare non i tassi e la quantità di moneta, ma gli spread di rendimento tra i paesi dell’area Euro. Sarebbe una novità assoluta. La Bce dovrebbe quindi intervenire modificando il rischio relativo dei diversi paesi, e, di fatto, creando quello che termini tecnici si chiama una “bolla”.

Chi predica questa visione, di fatto inventa una nuova teoria del canale di trasmissione della politica monetaria: accanto alla “money view” e alla “credit view” farebbe la sua comparsa la “bubble view”. È a questa bizzarra innovazione che si oppongono i tedeschi, e questa volta è difficile dare loro torto. Fini di risk-sharing e di condivisione dei debiti sono senz’altro nobili e degni di essere perseguiti, ma non nella politica monetaria e non dalla Bce. Anzi, nascosti nell’iniziativa della banca centrale, questi fini perderebbero il loro contenuto alto e diventerebbero poco più che un colpo di mano, un blitz per imporre una soluzione che altrimenti si riterrebbe difficile da raggiungere: insomma, una “furbata”. Il futuro della mutualizzazione dei debiti e di un mercato del debito europeo merita di meglio.  Per questo, stavolta stiamo con i tedeschi. Avremo mille altre occasioni per accapigliarci sulla solidarietà, la condivisione dei rischi e lo spirito europeo, ma sulla politica monetaria no: la politica monetaria deve essere fatta senza che la banca centrale imbarchi rischio di credito. E questo ci porta dal perché al come, e dai fini ai mezzi.

Come si fa ad assicurare che i titoli acquistati dalla Bce siano sicuri e privi di rischio? Qui si solleva una questione annosa, opaca e mai risolta. L’impressione, e il parere di molti, è che i titoli sovrani nel portafoglio della Bce siano dotati di uno status privilegiato (senior, si dice in gergo), per cui in caso di crisi finanziaria sarebbero gli ultimi a subire le perdite. A sostegno di questa teoria si porta spesso l’evidenza del caso greco, nel quale la Bce non ha partecipato alle perdite della ristrutturazione del debito. I più esperti poi fanno notare che questo status privilegiato è esplicitamente negato nel caso dell’OMT, l’intervento da parte della Bce a sostegno di un eventuale piano di salvataggio di un paese accordato dall’ESM (il Meccanismo di stabilità europeo): il corollario pare essere che se è negato esplicitamente in questo caso è implicitamente ammesso nel resto degli interventi.

Ragionamenti e congetture, quindi, ma una parola chiara sul tema non c’è. E ai tedeschi non basta. È questo il senso della proposta tedesca che eventuali perdite ricadano sulle banche centrali nazionali, e quindi sui paesi. E’ un modo di mettere nero su bianco quello che è scritto solo nell’aria: i titoli in Bce devono avere uno status privilegiato: devono essere senior. Ma questo solleva un problema di direzione esattamente opposta a quello della bolla che stiamo vivendo. Per essere chiari, se per assurdo la Bce comprasse la metà dei titoli italiani in circolazione, e a questi venisse dato uno status preferenziale, tutta la perdita in caso di una ristrutturazione del debito italiano si scaricherebbe sull’altra metà. È facile calcolare che a causa di questo aumentato rischio lo spread sui Btp  raddoppierebbe. Nell’ipotesi che è filtrata sulla stampa di contenere la dimensione dell’intervento tra il 20% e il 25% l’impatto sarebbe di un aumento tra un terzo e un quarto rispetto ai livelli attuali. E questo impatto sarebbe poi rafforzato dal fatto che, particolarmente per mercati più piccoli, diminuirebbe la liquidità dei titoli, e porterebbe gli operatori a chiedere un ulteriore aumento dello spread.

Nella decisione su come fare il QE c’è quindi un paradosso. Da un lato l’acquisto diretto dei titoli inquinerebbe il bilancio della Bce di rischio di credito, e continuerebbe ad alimentare la bolla sui mercati dei titoli sovrani che l’aspettativa del QE ha già creato. Dall’altro proteggere il portafoglio della Bce dal rischio di credito avrebbe l’effetto di provocare un rialzo degli spread, per il meccanismo che abbiamo descritto (chiamato “seniority conundrum”) e per la riduzione della liquidità sui mercati dei titoli. Ci sarebbe una via di uscita: non fare acquistare i titoli direttamente alla Bce, ma a un veicolo intermedio che potrebbe a sua volta emettere titoli “commestibili” per la Bce. In pratica, si tratterebbe di ricorrere alla solita vecchia pratica: una cartolarizzazione. Qualche conto su questa prospettiva è stato fatto in un lavoro del sottoscritto e di un dirigente della Banca d’Italia, e i risultati paiono incoraggianti, e risolvono il paradosso dell’acquisto diretto. Chissà se il team di Draghi ha altre soluzioni. Quello che è certo è che, a differenza dei QE di banche centrali normali, quello della Bce dovrà tenere un occhio di riguardo al problema della gestione del rischio. Cercasi Risk manager per un quantitative easing.

 

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