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Nel «tu» a Zingaretti su “Repubblica” c’è la storia della crisi dei giornali

14 Marzo 2018

Stiamo messi così: dell’intervista a Nicola Zingaretti pubblicata venerdì scorso su Repubblica colpiscono più le domande che le risposte. Queste infatti non dicono molto più di quanto non fosse già sotto gli occhi di tutti; le domande di Francesco Merlo invece sembrano un involontario racconto dello stato del giornalismo italiano. E si tratta di un racconto sempre più simile a una tragedia inavvertita.

Al netto d’ogni ragionamento politico, va detto che l’affermazione di Zingaretti di non escludere la propria partecipazione a eventuali primarie per la guida del Pd – non escludo, dice: e siamo in un indefinito nulla – sembra una nuova declinazione di quel suo consueto tentennare che in città è da anni quasi proverbiale. Nulla di nuovo, insomma, neppure per un momento come questo nel quale il Pd appare particolarmente scomposto e a far notizia ci si metterebbe poco. Così, e in mancanza d’altro, ciò che davvero resta di quella intervista sono alcune considerazioni svolte da Merlo nel porre le domande, e i toni utilizzati soprattutto.

«Il cognome Zingaretti – scrive Merlo – è un logo italiano, due fratelli con una sola faccia: rotonda bonaria e rassicurante. Anche se la pelata, che nel commissario Montalbano è la calvizie virile scolpita dal barbiere, in te – [poiché Merlo dà del «tu» a Zingaretti, nda] – è ancora circondata dai capelli, come un pensiero che si sta facendo strada». Si tratta di un esempio soltanto tra i tanti possibili, ma è sufficiente per dire di come sia andata perduta ogni distanza tra chi scrive e l’oggetto della scrittura stessa; anche quella distanza seppur minima che rimane comunque necessaria al mestiere persino nella scrittura politicamente schierata. E questa sensazione s’accentua, se possibile, per i toni sui quali la scrittura viene modulata.

Ecco, sono proprio i toni usati a colpire chi legge, e soprattutto l’ammiccare e l’uso reiterato del «tu» nel rivolgersi all’intervistato: «Tu sei il solo che ha vinto», «dopo la vittoria hai ringraziato mamma e papà». È proprio quel «tu» che più d’ogni altra cosa sconcerta: quel «tu» che mai si dovrebbe usare quando si scrive su un quotidiano poiché finisce per trasformare il giornalista nell’oggetto del proprio stesso articolo, facendolo entrare come coprotagonista nel fatto del quale egli dovrebbe invece rimanere soltanto cronista.

Per quanto sia in apparenza poca cosa, proprio l’utilizzo del «tu» segnala una perdita d’attenzione nella percezione del proprio ruolo e, nel peggiore dei casi, la perdita d’ogni pudore nell’allusione di chi fa informazione alla propria familiarità col potere, e diventa così uno dei segni icastici della crisi del mestiere.

Da queste parti s’è scritto spesso della crisi del giornalismo sostenendo come questa nasca dalla marginalizzazione della cronaca la quale, a partire dagli anni di Mani Pulite, inizia a essere sostituita da altri generi, il retroscena su tutti. È con ciò che l’informazione subisce una trasformazione radicale che include lo stravolgimento del rapporto tra potere e giornali, il quale si fa molto più stretto e funzionale. È infatti in quegli anni che i giornali smettono programmaticamente di raccontare anche il mondo per dedicarsi soprattutto al racconto del potere.

Sulle pagine dei giornali – e si perdoni l’autocitazione da un articolo scritto qualche tempo fa – «si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere».

Messa ai margini la cronaca, fattosi più stretto il rapporto col potere, divenuti i giornalisti coprotagonisti dei fatti e non più cronisti dei fatti, certi fenomeni smettono d’esser episodici per diventare la regola. Non si contano più le interviste di giornalisti a giornalisti e dilaga l’uso della prima persona nella scrittura. In questo modo, però, pur con le migliori intenzioni, si finisce inevitabilmente per manomettere il rapporto col lettore. E forse non è un caso se da qualche tempo l’insofferenza maturata dall’opinione pubblica nei confronti del potere e della politica si sia riversata anche sui giornalisti.

Ecco insomma che, se tutto questo è vero, se la crisi del giornalismo dipende anche dall’aver smesso di raccontare le cose del mondo a causa della marginalizzazione della cronaca in favore del retroscena, se ciò ha consentito di stringere il rapporto tra informazione e potere deteriorando allo stesso tempo il rapporto coi lettori, e se di tutti questi processi maturati in un ventennio se ne trovano tracce anche nelle trasformazioni del linguaggio giornalistico e nella struttura stessa che ha assunto l’informazione quotidiana, ecco allora che di tutto ciò quell’intervista pubblicata da Repubblica appare quasi una summa. E lo è, come si diceva, anche nell’uso reiterato del «tu» che – volendolo o meno – allude a un rapporto tra potere e informazione la quale oramai rischia a ogni parola di smetter d’essere informazione per trasfigurarsi in comunicazione, con tutto ciò che ne consegue, a partire dalla disaffezione dei lettori. Il crollo verticale del numero delle copie diffuse dai quotidiani in corso da mesi è lì a dircelo. E, insomma, forse la colpa della crisi non è tutta di internet.

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