Economia civile

Dubbi e Panarchia

20 Giugno 2017

Qualche giorno fa su L’Indiscreto commentavo l’idea di “panarchia”. Una proposta politica che suggerisce di permettere alle persone di vivere nello stesso territorio facendo parte però di ordinamenti statali differenti, l’importante è che questi si autosostengano dal punto di vista finanziario e che ogni adesione a qualsiasi ordinamento sia volontaria.

L’articolo è nato dalla lettura di un’antologia uscita recentemente per D Editore, “Panarchia un paradigma per la società multiculturale”. Il testo, essendo una raccolta di scritti di vari autori, è privo di un indirizzo specifico, si tratta di un manifesto filosofico, non di un manuale di proposte politiche immediatamente attuabili. Lo spazio che separa le idee politiche dalla loro possibile applicazione risiede nell’interpretazione che si darà di quelle idee – un po’ come un decreto attuativo serve a una legge emanata dal parlamento. Il come colmare questo gap di applicabilità è l’urgenza di qualunque interessato o curioso, si tratta della ricerca di un aggancio con la realtà. Ed è proprio ciò che ho fatto leggendo Panarchia: ne ho immaginato l’applicabilità, la congruenza con le regole vigenti e con l’etica che ne costituisce le fondamenta, così come ho pensato alle possibili criticità e le possibilità di “influenza” che un’idea simile potrebbe avere sul dibattito pubblico contemporaneo.

Per questo, durante la stesura dell’articolo, ho deciso di sentire via mail il curatore dell’antologia in questione, Giampiero de Bellis, uno dei nomi che più si è speso per questa strana idea politica. La prima domanda che ho pensato di porre a de Bellis era questa:

 

Ha sentito della questione del coltello sacro del signore sikh proibito da una sentenza del TAR? Non crede che sia un esempio del difetto strutturale della logica panarchica? Il diritto di poter girare armati come può convivere sullo stesso territorio con chi rivendica il diritto di non essere circondato da altri cittadini armati?

 

In questa domanda si riassume il mio dubbio principale rispetto al paradigma panarchico: quello della gestione della sicurezza. La mia intenzione era quella di confermare un dubbio, cioè che spesso quando “non si sceglie” una scelta, in realtà, la si compie comunque. Voglio dire, scegliere un paradigma come quello panarchico significherebbe che quel signore di cultura sikh avrebbe il diritto di girare armato. Cosa che io, personalmente, non apprezzerei. E con me molti miei concittadini, ne è una dimostrazione il fatto che in Europa sono pochissimi i paesi dove il possesso delle armi è liberalizzato.

Ecco materializzarsi il grande problema delle politiche libertarie: la questione delle minoranze. Il panarchico dirà che la maggioranza non dovrebbe imporre nulla alla minoranza, nemmeno, come nell’esempio poco sopra, che non si giri armati per le strade. Ma l’alternativa non è la pacifica coesistenza, l’alternativa è la maggioranza dei cittadini che sarà costretta ad accettare la presenza di armi negli spazi pubblici diffusa e incontrollata. Insomma delle due l’una: o la minoranza si adatta alle decisioni della maggioranza, o, di fatto, sarà la maggioranza a subire quelle della minoranza.

Comunque sia, dopo l’uscita del mio articolo ho ricevuto una mail dall’autore con alcune osservazioni. Le riporto qui di seguito, con l’intento di rendere pubblico uno scambio di idee che, chissà, sarà utile agli interessati ad approfondire alcuni aspetti di questa idea politica.

Innanzitutto, de Bellis dice che sbaglio a far rientrare la panarchia nella galassia libertaria:

La differenza sostanziale propria della panarchia è che si tratta di una metodologia che cerca di far convivere pacificamente vari orientamenti mentali e pratiche comportamentali (a ciascuno il suo). Inserire la panarchia nella galassia libertaria ne mina alle basi la portata innovativa. Questo è quanto cercano di fare gli anarco-capitalisti ma è proprio contro questo rischio che mi do da fare da alcuni anni. Quindi niente “terza via” ma la via che ognuno vuole imboccare per sé e per quelli che la pensano come lui/lei; e niente “né di destra né di sinistra” ma prospettiva a 360° e che ognuno scelga il suo grado e si collochi dove vuole.

Pur capendo la differenza con l’anarco-capitalismo, non credo di sbagliarmi e rimango scettico: il libertarismo, infatti, è l’unico terreno possibile su cui questa idea si potrebbe fondare dal punto di vista filosofico-politico. Come anche l’unico terreno culturale, dove potrebbe essere discussa e da cui poi potrebbe svilupparsi e diffondersi come proposta politica effettiva. Le idee partono necessariamente da un terreno, le parole e i discorsi si inseriscono in dei percorsi culturali, politici e personali: io che ne ho letto e che ora mi trovo a scriverne, ad esempio, vengo dal luogo più fortemente indipendentista d’Italia; il curatore della collana, Ventura, è italo-francese alsaziano, altra regione disomogenea rispetto alla cultura nazionale sotto cui risulta. Lo stesso de Bellis è svizzero e italiano e la Svizzera è certamente uno degli stati più fortemente federalisti del mondo. Insomma, bisogna ricordare che in politica non esistono idee da applicare ex novo alla società, né idee che possono viaggiare in solitaria, con tutto intorno il vuoto. L’idea politica viene da qualcosa e si rivolge a qualcos’altro – si tratta pur sempre di processi. Questo perché la politica, di fatto, non è scrittura di una pagina bianca, ma discussione metodica di intervento e correzione di un testo (lo scenario politico attuale) già scritto, e che va avanti con riscritture da secoli.

Successivamente de Bellis ribadisce il paragone tra il potere di coercizione, il più fisico e territoriale tra tutti i poteri, e un regime concorrenziale “immateriale” come quello della competizione tra compagnie telefoniche. Qui, a rispondere rischierei di ripetere ciò che ho già scritto nell’articolo precedente: questo paragone ha delle criticità evidenti.

Chiedevo a de Bellis: “Come farebbero due gendarmi monarchici a non scontrarsi con quelli socialisti?” La sua risposta:

è un po’ come chiedersi come fanno due autobus di due compagnie diverse a non scontrarsi (seguono il codice della strada), o due compagnie dei telefoni a non accavallare i loro messaggi (seguono dei protocolli di comunicazione). In ogni caso, lo scontro tra regimi territoriali diversi nel corso del secolo XIX (due guerre mondiali, la guerra di Corea, la guerra in Vietnam, ecc.) e gli scontri attuali, fanno apparire lo scontro tra due gendarmi, nel caso davvero si verificasse, roba da operetta.

Altra idea dell’autore è che esisterebbe, con la panarchia, un superamento della “realtà di maggioranze e minoranze”. Qui, di nuovo, per far sì che sia vero toccherebbe immaginare la possibilità di uno stravolgimento del paradigma politico così rapido e assoluto che le idee politiche e le ideologie si tramuterebbero in habitus comportamentali. E, come scrivevo poco sopra, credo che ciò non possa avvenire. Scegliere il tipo di governo non è come scegliere se utilizzare Telecom o Vodafone: non c’è ideologia nello scegliere una compagnia telefonica, come non c’è delega su immigrazione, impegno di salvaguardia ambientale o gestione dei flussi migratori, tutte cose decisamente ingombranti quando si discute di governi e politica. Riporto le parole di de Bellis:

La panarchia supera la realtà di maggioranze e minoranze (ad es. all’interno di un certo quartiere). Sarebbe come temere che gli utenti di Telecom Italia siano maggioritari e, in tal caso, possano schiacciare gli utenti di Vodafone. E quando de Puydt parla di maggioranze che acconsentirebbero alle minoranze di emigrare in massa parla in termini virtuali: vivere nello stesso luogo cambiando club di appartenenza.

Ultimo punto quello dell’organizzazione urbanistica. Io, nel mio articolo, ponevo la questione del pericolo a cui si andrebbe incontro nel non avere coesione e omogeneità nell’organizzazione degli spazi urbani.

Questo è un tema da non sottovalutare. Al tempo stesso è bene ricordare che alcune idee e pratiche geniali dell’organizzazione del territorio (ad es. le città-giardino e il National Trust in Inghilterra) sono il frutto di interventi dei cittadini i quali sono intervenuti spesso per salvare interi quartieri (Covent Garden) o ambienti rurali dalla distruzione del duo stato-speculatori. Di ritorno da Malta, devo costatare, ad esempio, con un certo disagio che l’isola, amministrata da un governo socialista, è una colata di cemento.

La risposta è una sorta di tu quoque che non va a segno. Che il governo “socialista” di Malta abbia cementificato le coste dell’isola – ammesso che sia responsabilità del governo attuale – non assicura nulla sul come funzionerebbe invece l’urbanistica nel caso di un’organizzazione panarchica. E le idee geniali “dal basso” si inseriscono comunque in un contesto regolato e amministrato.

La faccio semplice. L’idea panarchica è certamente fertile, soprattutto in tempi in cui esiste l’urgenza improrogabile da parte del sistema politico di legittimarsi, oltre che di arginare l’ascesa nazionalsocialista e populista. Eppure, per far sì che un’idea fertile sia discussa e considerata credibile è necessario delineare un percorso di applicabilità, mettere nero su bianco i passi necessari a trasformare un’utopia in una proposta di effettiva riorganizzazione sociale. In questo senso se esiste un banco di prova per il paradigma panarchico non può che essere quello del fronte indipendentista europeo, incarnato in un groviglio ora federalista ora glocalista, altre volte regionalista. Questo è il paesaggio attuale: separatismi, nuovi nazionalismi e forti spinte indipendentiste. Si potrebbe iniziare da lì a proporre delle linee guida panarchiche, ma il mondo là fuori, quello fatto di persone, istituzioni e partiti, si rivela spesso come una macchina che sforna delusioni, dove le decisioni sono amare come nel paradosso delle due buste. In ogni caso, se ci sarà chi ci vorrà provare, non mancheranno gli osservatori.

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