Lavoro
Il patriziato industriale. Le raccomandazioni dei ricchi
Nella mia pregressa vita lavorativa ho avuto modo di conoscere da vicino alcune correnti profonde della vita italiana. Diciamo alcune logiche che sottendono la vita nazionale e collettiva. Soprattutto l’approccio verso quel bene sempre scarso e sempre più “tesaurizzato” che è il lavoro. Se avete dubbi di quanto sia scarso e conteso il lavoro in Italia, non oggi, ma sempre, andate a rivedere il film di Giuseppe De Santis, sceneggiatura Elio Petri, “Roma ore 11”. Anni ’50, ma poco è cambiato.
L’accesso al lavoro nel nostro Paese credo che sia da quel dì una delle forme più alterate e meno trasparenti attraverso le quali i connazionali amano frodarsi vicendevolmente in quel “patetico gioco” che è il rubamazzetto del futuro. Il fatto che nel mondo di lassù, la Costituzione, si sia sentito il bisogno di citarlo espressamente e pomposamente in forme che sembrano anche propiziatorie all’art. 1 (“L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”… Peperepè) vuol dire che nel mondo di quaggiù ce n’è poco, e quel poco che c’è è sottratto alla libera competizione degli ingegni, dei meriti, dei destini. A me, che sono entrato nel mondo del lavoro attraverso una maglia rotta nella rete (concorso pubblico e senza raccomandazione) o che, per dirla con altra immagine, ho trovato una scala – il mio impegno, eh sì – con la quale sono riuscito a salire su negli spalti tra le difese merlate del castello, schivando le frecciate degli arcieri e le secchiate di pece, a me, dicevo, è capitato, una volta entrato nel maniero fortificato, di assistere a tanti giochini con i quali i peninsulari amano giocare nel derubarsi il bene-lavoro ma verso i quali avevo il dente avvelenato e lo sguardo aguzzo di chi per un pelo era stato sottratto alla disperazione sociale.
Innanzitutto c’è la raccomandazione e la frode nel pubblico concorso, peraltro oggi praticamente eliminato dagli scenari competitivi nel silenzio generale: una regola e un fastidio in meno, via!: eppure quanti ricercatori e commentatori sociali sono stati assunti per “chiamata diretta” in istituti pubblici di ricerca sociale a scrivere sulla scarsità del lavoro in Italia! Nonostante che i concorsi pubblici fossero stringenti nelle procedure e segreti nelle determinazioni, nei fatti erano truccati. Non tutti i posti ovviamente: non è stata inventata la formula perfetta dell’esclusione sociale. Qualcosa scappa sempre. Succedeva perciò che se il concorso era a 41 posti, questi 41 erano sicuramente lottizzati. Poi, dopo aver “ingannato” così la Corte dei Conti (quella che ogni anno con i pennacchi in testa fa le sue arringhe contro la corruzione, a ri-peperepè) indicando un numero più basso di quello necessario per coprire gli organici, si procedeva ad assumere anche 1.000 persone “utilmente collocate in graduatoria” – ecco il varco nella rete-, per chi ci riusciva a entrarci. Fin quando la Corte dei Conti, la Ragioneria Generale dello Stato o il Tesoro in generale – Peperepè ancora e ancora -, presi da soprassalto da rendiconto dicevano “basta”. E allora chi era dentro era dentro e chi era fuori era fuori. Questo per tutti gli anni ’70 e ’80. Ovviamente, essendo “figlio di nessuno” e pure comunista (i comunisti italiani: moralità ferrea e progetti politico-sociali sballati) nonché odiatore dei mafiosi (lo dico a quelli che ripetono con la lingua di legno che questo Paese è stato governato dai comunisti e non dai democristiani, dai “Moderati”, dai Monsignori e dai… mafiosi) col piffero che mi avrebbero assunto solo se lo avessero saputo. Potrei raccontare l’aneddoto a tal proposito, intimissimo, del questurino che prima di assumermi “assume” le sue informazioni direttamente da me chiedendomi di brutto se fossi iscritto al PCI, e io rispondendo di no, dissi la verità, ma foi, perché infatti ero iscritto alla FGCI, non quella del gioco calcio, ma la squadretta giovanile del PCI… i dettagli un’altra volta.
Poi, entrato nel castello merlato, dicevo, ho avuto modo, in un momento di snodo particolare dell’Azienda pubblica, diventata nel frattempo privata, di assistere a un altro giochino. Se le raccomandazioni e i concorsi truccati erano prevalentemente appannaggio dei Meridionali, ecco apparire i Settentrionali con il loro “patriziato industriale”. Di che si tratta? Di una questione molto simile all’esecrato clientelismo meridionale, ma molto più raffinata, come capita a chi ha superato lo stato ferino del vivere associati: era come se dopo gli strazi dei briganti fossero giunte le truppe regolari di Cialdini e La Marmora: stessa crudeltà, ma esercitata in divisa e con i guanti bianchi. Infatti, anche nel mondo delle Banche, delle Assicurazioni, delle Industrie della Lombardia ma soprattutto del Veneto (ah quanti bianchi, bianchissimi, democristiani veneti pittati di verde leghista ho conosciuto!) succedeva che i “vecchi genitor” giunti al top (Amministratori delegati, Direttori Generali) avessero sul groppone dei figli non proprio svegli, diciamo una “celeste prole” che si era smarrita negli studi o che aveva faticato a concluderli, non ultimo perché “schiacciata” da cotanto senno dei genitori. Prole che sarà stata celeste, ma che pure bisognava… sistemare. Ed ecco che la figlia di X o il figlio di Y (grandissimo industriale chimico il primo e supremo banchiere cattolico il secondo) ricorrono al nostro AD, Z.Z., e negoziano con costui, in quei sentieri incrociati che sono le raccomandazioni trasversali Alto di Gamma, l’ingresso dei pargoli in Azienda. Senza concorso, per chiamata diretta. E dove? In quelle funzioni aziendali inventate solo per loro: le relazioni pubbliche, la comunicazione, la formazione, il marketing ecc. ecc. Ruoli in cui inutilmente molti sognano di entrare ma che sono occupati ab aeterno dal “patriziato industriale”, da questi giovin signori pariniani senz’arte né parte, ma implacabili richiedenti ai sottoposti (tra i quali lo scrivente rammemoratore) compilazioni di format, di tabelle, di fogli excel con i quali trastullarsi nei loro caldi d’inverno e freschi d’estate uffici patrizi rococò. Peperepè anche a loro.
A voi patrizietti miei reindirizzo affettuosamente gli sciolti dell’Abate Parini, socialmente risentito come me, sperando che abbiate trovato nel frattempo la bussola della vostra vita.
A voi, celeste prole, a voi, concilio/di Semidei terreni, altro concesse/Giove benigno: e con altr’arti e leggi/per novo calle a me convien guidarvi./ Tu tra le veglie e le canore scene/e il patetico gioco oltre piú assai/producesti la notte; e stanco alfine/in aureo cocchio, col fragor di calde/precipitose rote e il calpestio/di volanti corsier, lunge agitasti/il queto aere notturno; e le tenèbre/con fiaccole superbe intorno apristi,/siccome allor che il Siculo terreno/da l’uno a l’altro mar rimbombar feo/Pluto col carro, a cui splendeano innanzi/le tede de le Furie anguicrinite. Ecc. ecc. Adieu!
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