Lavoro

“La prego, scelga me”: l’implorazione di massa per 150 euro di stipendio

2 Dicembre 2014

Nomade e con cane al seguito. Dieci traslochi in dieci anni: l’organizzazione è tutto.

Domenica mattina nella casa vecchia -fattoria in un bosco del Chianti-, in attesa del furgoncino che porterà i miei averi nella casa nuova -scali sui fossi di Livorno-, decido di cercare qualcuno che si occupi di me e, soprattutto, del mio cane, quando non sarò a casa (praticamente, sempre).

Pubblico quindi un annuncio su Internet, la bacheca globale. Scelgo subito.it: l’organizzazione è tutto, appunto, non ho tempo da perdere e il nome del sito promette bene.

 

Cercasi collaboratrice domestica, 3 ore settimanali, e servizio di dog sitter in caso di mia assenza.

 

Un’offerta di lavoro che non mi sembra così allettante, 12 ore mensili cane escluso (“in caso di mia assenza” è chiaramente un eufemismo), 150 euro di stipendio.

 

Tuttavia, ciò che è seguito a questa sola riga affissa in rete è una storia che deve essere raccontata.

Una storia che inizia con tanti numeri, prosegue con tante parole e finisce con tante vite.

 

Numeri: in 36 ore l’annuncio è stato visualizzato 628 volte. Ho ricevuto 129 chiamate, 16 sms, 10 mail.

Subito, come promesso dal sito, capisco di trovarmi di fronte ad una scelta -e non quella di avere in meno di dieci minuti una colf.

La scelta di capire quali persone ci siano dietro a questi numeri da centralino impazzito e, grazie a loro, capire il mondo che c’è lì fuori.

Naturalmente, ho scelto.

 

Provo a rispondere a tutte le chiamate, ma è umanamente -nel mentre, un lavoro lo sto cercando anch’io- e tecnologicamente -batteria del cellulare sempre scarica- impossibile. Le volte in cui riesco, ricevo la stessa richiesta: la prego, scelga me.

Disarmata davanti a queste suppliche, mi ritrovo a balbettare risposte senza senso: la verità è che non me l’aspettavo, non so che dire. Più o meno alla quarantesima telefonata, quando una ragazza  ventenne si offre di venire a fare la dog sitter in treno da Grosseto, capisco che mi devo fermare.

Il mio bisogno di una colf può attendere.

Il mio bisogno di comprendere cosa sta succedendo in Italia, no.

Lunedì sera, sopraffatta. Decido di lasciar perdere i numeri e invio 60 sms alle ultime 60 chiamate perse: buonasera, sono Andrea, mi dispiace per non averle risposto. Se le va, le chiedo di scrivermi una frase riguardo la sua ricerca di lavoro. La ringrazio con molto rispetto. 

Lo squillo delle chiamate viene immediatamente rimpiazzato dal trillo degli sms. So di aver solo spostato il mezzo, ma anche di aver fatto un passo: i numeri sono diventati parole scritte.

Tutti pensano di scrivere ad un uomo, visto il mio nome -l’avevo scordato.

E così le risposte che il gentilissimo signor Andrea riceve nel corso di tutta la notte diventano, la mattina, l’almanacco via sms dell’Italia in cerca di un impiego.

Letti tutti i messaggi, assisto ad un collasso generazionale che annulla le differenze, anagrafiche e sociali, tra una generazione e l’altra.

Ai tempi dell’università, ad affacciarci sul mondo del lavoro eravamo noi ventenni, generazione mille euro. Era scontato che le fortunate generazioni che ci avevano preceduto un lavoro l’avessero, eravamo noi a rivendicare il diritto ad un impiego.

Oggi si è livellata una sola, immensa generazione formata da persone di ogni età e provenienza sociale che un lavoro non l’ha. La generazione la prego, scelga me.

Di questa generazione ne fanno parte Teresa, 27 anni, Carmela, 57, Giuseppina –ma preferisco Giusy-, 19, Lucia, 63, Ivana, 40, Sabrina, 36, Giovanna, 17, Sara, 51, Marco, 42, Dimitri, 22 e tanti altri -così tanti. Italiani -la maggioranza- e stranieri, laureati e con la licenza media, livornesi e di mezza Toscana, madri, padri, figli, un nonno, divorziati, cassintegrati, licenziati, già occupati che non riescono a pagare il mutuo.

Una generazione senza età, ma con una sola supplica: la prego, ho bisogno di un lavoro, scelga me.

E soprattutto una preghiera, una litania: mi dia una almeno una possibilità, almeno lei.

 

Sì, almeno una possibilità, almeno io. Non posso assumere 60 persone, lo so, ma le voglio conoscere, voglio capire.

Dai numeri alla parola scritta, è ora di passare a occhi e voce. Così fisso 20 appuntamenti.

Le parole con cui mi ringraziano -non per un lavoro, per un colloquio!- mi fanno quasi piangere. Espressioni come fortuna, miracolo, onore, privilegio, che Dio la benedica.

Per una giornata intera, mi sento a disagio nella mia vita. Mi vergogno terribilmente di essere nelle condizioni di offrire un lavoro a gente con l’età di mia madre, di mio padre, di mio nonno, dei miei amici, dei loro figli.

 

Mercoledì, giorno di appuntamenti.

Primo dato: io che  sono stata abituata, per lavoro, ad attese infinite, capisco subito che chi ha davvero bisogno di un impiego arriva puntuale. Anzi, con dieci minuti d’anticipo. Tutti, nessuno escluso.

Con ciascuno faccio una passeggiata, poi mostro la casa. Camminando, pensavo sarebbe stato più leggero. Mi sbagliavo.

Lucia, ucraina, 41 anni, disoccupata, ho pulito tutta la vita. Si offre di dormire a casa mia, le notti in cui non ci sarò, per far compagnia al cane -e perché non ha il riscaldamento.

Lisabeth, peruviana, 31 anni, si presenta con una neonata in braccio, è malata e non so a chi lasciarla. Alla fine, congiunge le mani e dice che pregherà sempre per me, per la signora.

Giovanna, livornese, 45 anni, lavoro di notte e ho bisogno di lavorare anche di giorno, sono separata e mio marito non paga gli alimenti ai miei figli. Tira fuori dalla borsa uno straccio e si mette a pulire, determinata ad iniziare subito. Ed io non so che dire.

Erica, livornese, 38 anni, facevo la badante, venerdì è morto il mio signore, dispiace, ma con lui ho perso tutto, anche la casa, dormivo da lui. Anni fa lavorava in una fabbrica, poi ha chiuso.

Federica, livornese, 26 anni, laureata, licenziata. (Ad un certo punto ho smesso di prendere nota del nome delle fabbriche, tanto ho capito che hanno chiuso tutte).

Marianna, romena, 61 anni, che mi consegna un sacchetto di plastica con dentro un grongo, l’ho pescato stamattina, io e mio marito viviamo in barca e facciamo peschina, ma questo pesce ha troppe spine e la pescheria non ce lo compra, lo regalo a lei, scelga me. Mentre osservo quel pesce mai visto prima, Marianna lo dice senza vergogna -così mi vergogno io: non ha una casa, mangia pesce e gli avanzi degli happy hour dei bar. Lei e il marito vivevano a Ferrara in un bell’appartamento, la ditta per cui lavoravano (in nero) è stata distrutta dall’alluvione del 2012, poi lo sfratto.

Sabrina, livornese, 18 anni, è la prima volta che vengo qui, mi dice, scusandosi per essere in anticipo. Viene dalla periferia, dal quartiere Shangay che scopro essere la Tor Sapienza di Livorno. E in centro non ci si va. In diciotto anni, mai.

Francesca, livornese, 31 anni, abilitata all’insegnamento e in attesa di un ruolo nella scuola pubblica. Mi dice con sincerità che il lavoro non le piace, anzi, se l’avessi saputo non mi sarei laureata, ma è disposta a far di tutto pur di sopravvivere. Nel caso non venisse scelta, però, mi può vendere anche creme per il viso e cialde di caffè.

Marco, livornese, 36 anni, ho una ditta di pulizie mie, ma non ci si campa. A fine mese guadagna puliti puliti  400 euro, ha una moglie, un figlio. Non sono un vagabondo, io: vuole dirmi che non è uno scansafatiche e di licenziare l’ultimo operaio rimasto in ditta non se la sente. Ne ha già licenziati sei.

 

Alla fine della giornata, sono stremata, disperata e lucida. Una persona è stata assunta, ma non è questo il finale della storia.

Il finale sono le telefonate con cui scelgo di dire al mondo che ho appena conosciuto che anche domani non avrà un lavoro.

Tutti rispondono entro il terzo squillo. Alcuni sospirano, alcuni dicono lo sapevo, qualcuno piange, Marianna dice che ce la farà, sta pescando seppioline. Francesca mi ripropone le creme, Sabrina si arrabbia quando le dico buona fortuna -ha ragione. Lucia si offre di farmi da mamma.

Tutti, però, mi ringraziano per aver avuto il coraggio di comunicare la mia decisione a voce.  Almeno lei, mi dicono, un’altra volta.

Generazione almeno lei, generazione la prego, scelga me.

 

 

 

 

 

 

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