Diritti
Quanto tempo ci vuole per essere italiani?
Quanto tempo ci vuole per essere italiani? Dico ora, non se e quando verrà approvato lo ius soli. Ora, per i rom; per essere considerati, studiati e giudicati da italiani? Due generazioni, o due secoli? E ci vuole un cognome solidamente italiano, di quelli che finiscono con una vocale? Bisogna essere cristiani? La buffa tragedia è che buona parte dei rom in Italia avrebbe pure anche queste caratteristiche, ma la loro italianità è riconosciuta solo a patto che nascondano per bene la loro origine rom.
Lo hanno già ben scritto qui Jukka Reverberi e Lara Facondi, ricordando anche l’invisibilità degli integrati. «Loro non si integrano mai» si dice, anche perché quando lo fanno è difficile che ce ne si accorga. Il fastidio verso i rom attraversa tutte le tasche e tutta la gamma dell’elettorato; quando non è razzismo è tiepidezza, e i motivi sono lampanti. Ne ha scritto Facci qualche tempo fa e più recentemente Raimo. Anche a leggere solo i commenti ai loro pezzi, si apre uno spaccato formidabile (formidabile anche perché non si tratta del forum della Padania). Mario scrive «Vivo a Roma da 42 anni, cioe’ da quando sono nato, in uno di quei quartieri che hanno sempre (SEMPRE) dovuto fare i conti con questo “problema” che, venga detto, era gia’ presente prima della mia venuta al mondo, ed i miei predecessori ne avevano gia le scatole piene…Io penso si possa dire con tutta franchezza, che non sono i popoli che li ospitano che non li vogliono far integrare (nel mio caso è cosi’)… notate bene, per tutti quelli che diranno che queste sono cose che gli (nel ns caso) italiani fanno da sempre, rispondo che noi siamo nel nostro paese». «Ospitare», «nostro paese»: chiarissimo. E stupefacente come l’anonimo commentatore non colga che dalla sua testimonianza si evince che quei rom sono a casa loro, come la maggior parte dei rom presenti sul territorio italiano. Il fatto che abbiano comportamenti criminali riguarda la loro gestione, non la loro italianità. Forse suggerisce che se iniziassimo a considerarli in tutto e per tutto italiani, potremmo agire meglio nelle strategie di contrasto alla loro marginalità, e a ciò che che ne deriva. Sembra non si riesca a scavare la roccia, anche se proviamo a far cadere sopra qualche altra goccia. Facciamone la storia, chissà che non serva.
La presenza dei rom e dei sinti in Italia non è recente. Per stare all’attualità, i casi di Bologna e Roma presentano una singolare contiguità cronologica. Il primo documento che attesta senza ombra di dubbio la presenza di rom a Bologna risale infatti al 1422, quasi sei secoli fa. Ripeto: sei secoli fa. Fu il momento di una migrazione che dall’Europa orientale portà almeno tre carovane di nomadi verso Occidente: due andarono verso Germania, Francia e Inghilterra, una prese la via dell’Italia. Era chiamata la «Grande Banda» ed era guidata da Andrea «ducha del piccolo Egitto». I rom infatti si dichiaravano, o venivano dichiarati, egiptiani o cingani (da cui nelle diverse lingue gitani, gitanes, gipsy). Se poi questo Egitto fosse quello vero, o risalisse a un piccolo Egitto presente in Turchia (Izmit) o in Grecia (Modone), tappe intermedie di un viaggio che aveva preso le mosse dall’India, è questione che qui non interessa. Per quanto riguarda Andrea, sosteneva di essere il legittimo re d’Egitto, il cui trono era stato usurpato da Sigismondo d’Ungheria e di essere stato costretto per questo a vagare per sette anni. La carovana fece tappa a Bologna, e poi si diresse a Roma alla ricerca di una bolla papale, che certificasse le prerogative di Andrea e garantisse loro delle immunità. E’ la prima attestazione di una grossa migrazione di rom in Italia settentrionale. Il documento fu reso noto da Muratori, che non mancò di condirlo con una notevole dose di disprezzo. Non era però la prima attestazione della presenza di rom nella penisola, poiché essi erano già da tempo sulle coste adriatiche dell’Abruzzo e della Puglia nonché in Calabria. In Molise esisteva una località (ora Jelsi) nota come Castrum Giptiae, fondata nel XIV secolo. Forse la testimonianza più nota della precednte presenza tzigana in Italia è data dall’etnonimo del pittore abruzzese Antonio Solario (1382-1455) detto «lo zingaro». Il termine cingaro pare presente in Sicilia già dalla fine del 1300; qui è ancora presente una famosa comunità di seminomadi, i camminanti. (Avete presente «donne è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio?» Sono loro che risalgono l’Italia cercando di sfruttare della abilità usurate dal tempo e dal progresso). Ondate successive di migrazione in Italia, per sfuggire alla dominazione dei Turchi, avvennero tra il 1448 e il 1532.
Parte consistente della popolazione rom italiana viene da lì; secondo le testimonianze dell’epoca, tenevano «padiglioni fuori le città» e si tatuavano le mani, le donne leggevano le carte e gli uomini si dedicavano alle volte «a gran roberie». Molti continuarono a muoversi inseguendo dei mestieri: circensi (i cui ultimi eredi sono i sinti Orfei e Togni) cavallari, stagionali nelle campagne. Come ben noto, altro mestiere era quello dei calderari (non lo ammetterà, ma Calderoli è un cognome ben probabilmente rom). Questi gruppi passavano di luogo in luogo. Attualmente dei 140000 rom stimati in Italia, solo il 3% mostrerebbe quella tendenza itinerante (stando alla “Strategia Nazionale d’inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti” adottata dall’Italia in virtù dell’Attuazione della Comunicazione Commissione Europea n. 173/2011), che combacia con l’idea oleografica di spensierata libertà degli «zingari» nella cultura popolare del Novecento. http://www.youtube.com/watch?v=h695iGP3rDA
La caduta del muro di Berlino, la guerra in ex-Jugoslavia, l’ingresso dei paesi dell’Est (in particolare della Romania) in Europa, sono certamente elementi che hanno aumentato la presenza dei rom in Italia. Ed è indubbio che l’arrivo di questi nuovi rom – molti profughi di guerra – abbia scombussolato un situazione già difficile. Anche perchè la loro accoglienza è avvenuta assecondando i nostri pregiudizi. Coloro che provenivano dalla ex Jugoslavia erano infatti in buona parte stanziali; ma poiché vennero letti attraverso la chiave del nomadismo – che già non era più valida per i rom italiani – la soluzione che si trovò per tutti fu quella di includerli nella strategia dei campi che era stata sancita legislativamente a partire dalla metà degli anni ’80 (attraverso una serie di regolamenti regionali). Dunque costruendo nuove strutture emergenziali, pensate per ospitare persone di passaggio, ma rese nei fatti definitive, con il seguito di degrado che è immaginabile.
La storia delle roulotte e dei campi meriterebbe di essere divulgata: luogo marginale e altro da noi, per eccellenza. Luogo, se ci si pensa anche solo di sfuggita, ben macabro per una popolazione che fino al 1850 vi era ridotta in schiavitù (in Romania) e che poi nei campi tedeschi subì un genocidio su base razziale, il Porrajmos, di 500mila vittime (tre volte il numero dei Rom attualmente presenti in Italia). Conto di tornare in un altro intervento sulla questione più generale dei campi, anche perché a Roma, oltre gli accadimenti di Tor Sapienza cova, neanche più sotto la brace, il gigantesco problema del campo di La Barbuta, su cui sta per abbattersi una procedura di infrazione europea e dove, all’inquinamento e alla diffidenza di locali, si somma la lotta interna tra rom e sinti, e tra loschi capi e associazioni di tutela. Vorrei però solo far notare come si registri un ben curioso cortocircuito al riguardo del nomadismo e dei campi. Li si contesta e li si assalta, ma si respinge come follia l’idea di provvedere a una politica abitativa per i Rom. Una politica, beninteso, che era in origine esplicitamente prevista dalle leggi regionali, per coloro che avessero scelto la strada della sedentarietà, e dall’Europa, che stanzia fondi appositi. Ma che è ostacolata proprio da tutti coloro che sono pronti alla rivolta se vedessero assegnate delle case agli «zingari». Prima gli italiani, si dice.
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