Diritti

Non è fallito un modello di integrazione. ma la risposta di destra al conflitto

12 Gennaio 2015

In questi giorni se ne sentono di tutti i colori: giudizi affrettati, analisi superficiali anche da parte di analisti pacati e di solito attenti.

Lo scontro di civiltà nel cuore dell’Europa agita gli spettri del feroce Saladino, richiama archetipi ancestrali mai come oggi obsoleti e sbagliati. Ci interroghiamo su come sia possibile che – nel continente dei diritti e nel paese dell’uguaglianza, della libertà e della fraternità, siano potuti crescere mostri assassini che mettono in discussione esattamente i principi su cui siamo e sono cresciuti.

Certo che la domanda è pertinente: come è stato possibile? Perché ci sono ragazzi francesi, britannici, forse italiani che si arruolano nelle brigate degli assassini che, in nome di un Dio banalizzato e violato, seminano terrore ovunque?

Le risposte però sono sbagliate, superficiali, non vanno a fondo quasi mai. Le risposte di chi vuole capire, ovviamente. Perché le risposte dei Salvini de’ noarti sono speculari, uguali e contrarie e assolutamente funzionali ad agitare lo spettro dello scontro di civiltà per capitalizzare consenso.

 Il “noi e loro” traccia una linea che non tiene conto delle sfumature, degli sfridi, delle scale di grigio. Mai come in questo momento, invece, le scale di grigio sono opportune. Per capire ma soprattutto per agire, politicamente e culturalmente. Da sinistra, laicamente.

 Queste sono le parole di un giovane blogger di una citè francese.

 “…  a quelli che non hanno mai messo i piedi in una banlieue, in una citè, che non sono cresciuti in un parcheggio  dove c’è puzzo di piscio, dove gli insulti a tua madre sono incisi nell’androne.

Dove bisogna aspettare mezzanotte perchè il tizio del 13 piano spenga il suo mega impianto H-Fi, perchè Charlot la smetta di massacrare sua moglie perché non c’erano i pistacchi a tavola, perchè la sorella di Mamadou la smetta di tirare la spazzatura dall’ 11 piano – i pannolini di suo figlio Fatou e le bottiglie di varechina.

Dove bisogna aspettare perché il portinaio pensi prima o poi di avvertire Otis, la società che prima o poi verrà a riparare l’ascensore, e perché Fred la smetta di far dormire il suo Pitt-bull grosso come una pantera nel posto dei passeggini, perchè Said la smetta di attraversare con il suo motorino alle 9 del mattino il centro commerciale dove non ci sono più commercianti, aspettare che anche io la smetta di tirare gavettoni a quei coglioni del Front National che attaccano volantini sui muri

 Questo pezzo è stato scritto da un “Beur” – neologismo del “verlan” di periferia, su un blog di ragazzi del quartiere La Courneuve.  4000 appartamenti abbattuti pochi anni fa in un progetto di riqualificazione. Cercate su Google le immagini, così è più chiaro di cosa parliamo.

 I beurs sono gli esclusi di terza generazione, quelli che secondo uno studio del Governo Jospin hanno 5 opportunità in meno di un loro coetaneo francese – con gli stessi requisiti – di trovare lavoro, di uscire dalle citè, di entrare nella società per via del loro cognome e del luogo di residenza.

Celebrati dal film La Haine, sono i ragazzi delle rivolte, la “racaille” di Sarkozy.

Non immigrati di terza generazione ma disoccupati di terza generazione. Quelli che per entrare al Collège passano attraverso i metal detector, quelli che mettono il naso fuori dal loro perimetro e vengono controllati, umiliati, ignorati. Che non trovano lavoro perché si chiamano Mohamed, perché sono cresciuti nelle banlieue di Parigi, Lione, Marsiglia, Lille.

Hanno dato vita, negli anni, a tentativi di movimenti politici e sociali: “ni putes ni soumis”, il manifesto del 2003 delle ragazze di periferia, “ne touche pas à mon pot”, un tentativo di superare le barriere invisibili della discriminazione, “J’ai un rève”, il manifesto politico di una delle icone del rap francese, Axiom, che spinge i ragazzi di banlieue alla partecipazione democratica e non alla rivolta rabbiosa.

 La Francia è un paese di straordinaria complessità, agitata da conflitti sociali enormi e profondi.

E’ sbagliato parlare di fallimento di un modello di integrazione laico e repubblicano.

Perché l’integrazione formale senza inclusione sociale non produce coesione, anzi. Semplicemente quel modello – che pure noi di laici di sinistra abbiamo sempre celebrato come “giusto” nei principi – non ha saputo o voluto risolvere le contraddizioni intanto sociali ed economiche, poi culturali e identitarie.

Da quelle contraddizioni sono nati musicisti, scrittori, artisti underground, intellettuali. E’ nato il rap militante, la street art, il free style, i parcours. Come negli USA delle rivolte di Los Angeles, la rabbia ha generato violenza, rivolta, ghettizzazione tribale ma anche  cultura e creatività giovanile.

Daniel Picouly, scrittore di madre francese e padre martinicano cresciuto in una citè, scrive “Quando ero piccolo mi chiedevo sempre cosa pensava l’architetto di me nel credere che io potessi vivere bene nel quartiere che aveva progettato”.

In questa frase c’è una delle radici del male: la pianificazione urbana potente che ha messo ai margini della città valorizzata intere generazioni di giovani francesi. Un milieu di luci ed ombre, straordinari slanci creativi e violenza assoluta. Risposte pubbliche possenti – perché negli ultimi 25 anni ci sono state – ma una politica mainstream che non ha dato risposte inclusive, quasi mai.

 Dallo stesso milieu sono nati i fratelli Kouachi, i jihadisti che seminano terrore. Quelli che hanno sostituito la rabbia criminale con la rabbia religiosa.

 Quello che ci insegna la Francia non è il fallimento di un modello di integrazione, bensì il parziale fallimento di un modello di giustizia sociale e di inclusione. La loro storia è profondamente diversa dalla nostra, imparagonabile nei fondamenti.

 Quello che insegna la storia francese e, in una certa misura, quella anglosassone, è che hanno fallito le politiche di destra, feroci ed esclusivamente securitarie. Ha fallito Sarkozy Ministro degli Interni che nelle banlieues ha mandato la polizia e l’esercito a domare la “racaille”. Ha fallito l’idea che sotto la cenere covasse una rabbia identitaria, religiosa e non una rabbia sociale, territoriale, di classe che poi ha trovato le parole di questo millennio: lo scontro di civiltà e si è trasformata in furia assassina.

 La lezione che possiamo trarne, però, è che siamo ancora in tempo per evitare gli errori.

 La risposta giusta – quella che ci potrebbe evitare di essere un futuro luogo di conflitto – è maggiore inclusione, maggiore democrazia, maggiore estensione dei diritti.

E’ lavorare a tutti i livelli per non costruire città separate, quartieri isolati, aggregazioni rabbiose di esclusi.

E’ il rispetto della diversità nel perimetro dei principi costituzionali: libertà, uguaglianza, pari opportunità. Questo avverrà non calando dall’alto un modello teorico di principi (peraltro non applicati) ma costruendo quotidianamente, nelle scuole, nelle strade, nei marciapiedi delle nostre comunità locali i motivi per stare insieme e riconoscersi come appartenenti allo stesso destino: vivere nello stesso spazio e nello stesso tempo. E’ riconoscere che le sacche di disuguaglianza e sfruttamento (da Rosarno in poi) minano le fondamenta della nostra comunità nazionale. E’ l’urgenza di cambiare un quadro legislativo cattivista, inutile, pericoloso (dalla legge sulla cittadinanza alla Bossi-Fini) che produce emarginazione e esclusione sociale.

La risposta giusta, lungimirante, egoista è investire nell’uguaglianza e nel rispetto della diversità.

Non abbiamo scelta: il contrario della parola integrazione è la parola disintegrazione.

Se proprio non riusciamo a farlo “per loro” facciamolo per “noi”.  Applichiamo il principio dell’altruismo-egoista di cui parlava M.L King.

Facciamolo per quei ragazzi del Liceo Scientifico Einstein di Torino, musulmani di fede ma italiani di cultura, che hanno scritto una lettera aperta a noi adulti, a noi politici, ai loro padri chiedendo di smetterla. Che si sono alzati nelle classi che frequentano dicendo ai loro compagni “parliamone, insieme”. Ragazzi che crescono insieme ai nostri figli e oggi ci dicono che loro sono noi, che sono parte della società italiana, che ne condividono le ansie, le paure e le prospettive.

Questa, oggi, è la nostra responsabilità. Costruire società. Non costruire muri ma sederci sui muretti della convivenza, creandoli se non esistono, valorizzandoli perché ne esistono tantissimi se solo vogliamo vederli.

 Rispondere all’orrore “con più democrazia e più umanità”, come rispose J. Stoltenberg premier norvegese dopo le stragi di Oslo e Utoya per mano dei neonazisti – non è buonismo.

E’ buon senso. Quello che la strategia del terrore vuole uccidere, con gli estremi del cattivismo che si toccano e prosperano lasciando macerie nelle nostre comunità globali e locali.

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