Diritti
Così Onu e governi europei (Italia inclusa) aiutano il boia a Teheran
Mahmood Barati, insegnante, è stato impiccato il 7 settembre scorso in Iran. Era partito alla volta di Teheran da una città lontana, per andare a cercare il fratello finito in carcere. Per una tragica ironia del destino, in carcere ci è finito anche lui, accusato di reati di droga sulla base di una falsa testimonianza di un altro carcerato che così pensava di regolare i conti col fratello di Mahmood. Da lì al patibolo il passo è stato breve, e a nulla è valso il fatto che per ben due volte l’accusatore abbia ritrattato. L’avvocato ha potuto parlare con lui 15 minuti prima del processo, durato circa mezz’ora.
In Iran non è raro finire impiccati per solo traffico o possesso di quantitativi, anche modesti, di droghe. Dall’inizio del 2015 sono 500, su un totale di 800 giustiziati, secondo le informazioni raccolte dalla ong Iran Human Rights. Negli ultimi cinque anni il conto sale a 2.500. Sono per lo più curdi, afgani, beluci (l’etnia che vive nella zona orientale dell’Iran) trovati in possesso di oppiacei o il Crystal Meth, l’anfetamina che va per la maggiore nella capitale. Quasi sempre provengono da ceti popolari. Quasi sempre sono “muli” non signori della droga, ha dovuto riconoscere un alto papavero del regime. I processi sommari sono la regola, e con l’intensificarsi della lotta al narcotraffico, anche grazie ai programmi di cooperazione internazionale patrocinati dalle Nazioni Unite e finanziati da vari governi democratici, le esecuzioni crescono.
Il ministro degli esteri iraniano Mohammed Javad Zarif non ne ha fatto mistero durante un incontro a Vienna l’anno scorso: secondo quanto riferito dall’ex ministro Werner Fasslabend, Zarif aveva attribuito l’incremento delle esecuzioni capitali al traffico di droga. Tanta durezza è servita a poco: lo scorso dicembre, l’ayatollah Sadegh Laijani, ministro della Giustizia di iraniano, ha ammesso che le leggi attuali «non hanno alcun impatto», e che «abbiamo bisogno di un cambiamento perché il fine ultimo della legge dovrebbe essere quello di rendere giustizia, mentre nella realtà questo obiettivo spesso non è raggiunto».
Aumentano le esecuzioni capitali per droga
Così mentre negli ultimi decenni sulla pena capitale in generale si è registrato un trend discendente, dagli anni ’80 è invece salito il numero dei paesi in cui è prevista la pena di morte per i reati di droga: dai 10 del 1979 al massimo di 36 toccato nel 2000. L’escalation è una conseguenza della “war on drugs” a livello internazionale, suggellata dalle convenzioni delle Nazioni Unite, che ha spinto molti paesi a inasprire la normativa domestica fino alla soluzione estrema della pena capitale.
«La maggior parte degli Stati che più attivamente applicano la pena di morte per il traffico di droga hanno adottato queste leggi dagli anni Ottanta in avanti, il che suggerisce che più che riflettere i valori tradizionali di questi paesi, le politiche sono invece una risposta al clima anti-droga del periodo e all’adozione della Convenzione Onu contro il traffico di droga del 1988», hanno scritto Rick Lines, Damon Barrett and Patrick Gallahue, autori di un rapporto sul tema per l’ong Harm Reduction International.
Secondo Amnesty International, nel mondo sono 100 gli Stati che hanno abolito del tutto la pena di morte (140 se si considera chi di fatto non la applica), 58 i Paesi che la prevedono e la applicano, e in 33 di questi è prevista per i reati di droga (traffico, possesso, produzione, etc). Ma sono 7 quelli dove si concentra la maggior parte delle esecuzioni quale pena per i reati di droga: Cina (almeno 3mila nel 2014), Iran, Arabia Saudita, Vietnam, Singapore, Indonesia, Malesia. In quest’ultimo paese, buona parte delle persone giustiziate era stata condannata per possesso o traffico di marijuana o hashish.
A ragione, quest’anno, la 13esima Giornata mondiale contro la pena di morte, promossa per oggi 10 ottobre dalla Coalizione globale che riunisce 150 fra ong, associazioni di avvocati, sindacati, vuole richiamare l’attenzione sulle condanne capitali per reati di droga e sulla correlazione fra la cooperazione nei programmi contro il narcotraffico e le esecuzioni.
Da tempo la cooperazione internazionale contro il narcotraffico ha prodotto risultati paradossali, considerando che avviene sotto l’egida delle Nazioni Unite, la massima organizzazione internazionale chiamata a difendere i diritti umani, a cominciare ovviamente da quello alla vita. Il paradosso di incoraggiare le esecuzioni capitali. Senza che siano diminuiti né il traffico e il big business né il consumo di droga, confermano i dati delle stesse Nazioni Unite (World Drug Report, 2014).
La responsabilità delle Nazioni Unite
Da Vienna l’Ufficio Onu contro la droga e crimine (UNODC) assiste operativamente gli Stati nella guerra al narcotraffico. I programmi UNODC prevedono attività di prevenzione ed educazione alla salute, ma anche finanziamenti, formazione di agenti, supporto ai controlli doganali, e sono finanziati su base volontaria dai governi (90%). «Negli ultimi anni è emersa chiaramente una questione di complicità fra il supporto ai programmi orientati a potenziare l’azione di polizia e l’incremento delle esecuzioni capitali in diversi Paesi», osserva Chiara Sangiorgio, adviser di Amnesty International.
Nel Palazzo di Vetro si è cercato di correre ai ripari. L’International Narcotics Control Board, l’organismo Onu che monitora l’applicazione delle convenzioni internazionali antidroga, sta facendo pressione perché gli Stati che la prevedono aboliscano la pena di morti nei reati per droga. In un confronto che si è svolto il 28 settembre a Ginevra, l’UNODC ha rimarcato che i reati di droga non soddisfano il requisito dei “delitti più gravi” per i quali la pena può essere legalmente comminata secondo il diritto internazionale.
Il direttore esecutivo dell’UNODC Yuri Fedotov supervisiona un sequestro di droga in Iran
Ma queste prese di posizioni ufficiali non sciolgono le ambiguità. «La cooperazione con l’Iran attraverso programmi relativi a rafforzare le forze di polizia e i controlli doganali stanno proseguendo – accusa a Stati Generali Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights – e sia l’UNODC sia i Paesi che finanziano questi programmi devono essere ritenuti responsabili delle centinaia di esecuzioni capitali per reati di droga che avvengono ogni anno in Iran, con processi arbitrari, privi di qualsiasi elementare garanzia per l’imputato». Le numerose testimonianze raccolte parlano di un’automatica sequenza arresto-detenzione di qualche settimana-tortura-confessione-processo lampo a porte chiuse-impiccagione.
Gli aiuti europei (e italiani) ai boia di Teheran e Kabul
Nel 2013 l’allora ministro della Cooperazione allo sviluppo danese Christian Friis Bach ha dovuto ammettere che «le donazioni stanno conducendo a esecuzioni capitali». La Danimarca ha smesso di supportare i programmi di cooperazione di polizia con l’Iran. Lo stesso hanno fatto Irlanda e Gran Bretagna. Ma Germania, Francia e Italia stanno proseguendo: il potenziamento della capacità operativa della polizia iraniana ovviamente porta a un incremento degli arresti, e quindi delle esecuzioni. Per questa ragione la Coalizione globale contro la pena di morte chiede ai paesi europei che «la cooperazione con l’Iran sia condizionata a una moratoria sulle esecuzioni per reati di droga».
«Aiuti europei per le esecuzioni capitali» è un rapporto preparato della ong Retrieve che ha documentato nei dettagli gli aiuti dei governi europei che, passando dalla cooperazione fra forze di polizia, alla fine danno una mano al boia. Da questo rapporto, datato novembre 2014, risulta che dal periodo 1985 l’Italia è stata il principale finanziatore Ue dei programmi contro il narcotraffico in Iran e Pakistan, dopo la Gran Bretagna che svetta con un aiuto di oltre 29 milioni. Roma ha erogato (o si è impegnata ad erogare fino al 2016) quasi 7,7 milioni di dollari, di cui 2,3 milioni all’Iran. Nello stesso periodo, in questi due paesi sono stati giustiziati 3.426 persone accusate di traffico di droga. Fra i paesi finanziatori seguono poi la Germania, con un apporto vicino a quello italiano, la Francia (5,5 milioni), la Danimarca (3,6 milioni) e la stessa Unione Europa con 2,3 milioni.
Mentre la Gran Bretagna ha scelto di uscire del tutto dai programmi di cooperazione con l’Iran, la posizione dell’Italia appare più sfumata. Ma è anche vero che la situazione era diversa in partenza. «Il programma “UNODC country programme for the Is Republic of Iran (2011- 2014)”, dal quale Danimarca, Irlanda e Regno Unito hanno ritirato il proprio contributo, non è stato finanziato dall’Italia», è stato precisato qualche tempo fa dall’allora sottosegretario agli Affari esteri Lapo Pistelli, nella risposta a un’interrogazione del senatore Luigi Manconi. L’Italia ha supportato invece un altro programma UNODC imperniato sull’Afghanistan, primo produttore mondiale di oppio, al quale partecipano tutti i paesi confinanti, Iran incluso. Dal 2013, assicurano però fonti vicine al dossier, sono stati più stanziati nuovi fondi, anche se sono ancora in corso i pagamenti di quanto dovuto. La collaborazione comunque permane, e per ora non è chiaro in che misura possa “spingere” indirettamente le esecuzioni capitali. All’Ambasciata italiana di Teheran, infatti, è stato assegnato un funzionario del ministero degli Interni, formalmente qualificato come «esperto di sicurezza», che svolge attività di cooperazione tecnica con le autorità iraniane sia su temi del narcotraffico sia in altri ambiti (terrorismo, traffico di armi, migrazioni).
L’imbarazzo nelle cancellerie europee per ciò che nei documenti delle Nazioni Unite viene definito “conseguenze inintenzionali” della guerra alla droga è palpabile. Forse per questo bisognerebbe dare ascolto alla Coalizione globale contro la pena di morte e pretendere che la cooperazione con l’Iran e gli altri Paesi in materia di lotta al narcotraffico sia condizionata a una moratoria sulle esecuzioni capitali per reati di droga.
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