Economia e Lavoro

Caro statale, riuscirai a sfangarla anche stavolta?

29 Dicembre 2014

Non ho l’abitudine di riciclare vecchi pezzi anche quando l’argomento si ripresenta con una frequenza talmente sospetta e fastidiosa che ti parrebbe sacrosanto sbattere in pagina l’ultimo che hai scritto. E alla questione della licenziabilità degli statali ho dedicato in passato più di un pezzo come il direttore di questo giornale sa e ha tollerato. Ma un sacrosanto riciclo ve lo meritate ed è il titolo che campeggia su questo scritto seppur lievemente modificato in interrogativo e che richiama il precedente più assertivo del 22 marzo 2012: «Caro statale complimenti, l’hai sfangata anche stavolta». Ci ho pensato molto, ma a due anni di distanza titolo migliore non sono riuscito a trovarlo.

Mi sono immaginato due tipi di lavoratori che la mattina escono di casa. A uno, dipendente di un’azienda media o anche piccola, toccherebbero pene aggiuntive, oltre a quelle che ognuno porta nel proprio animo per questioni personali. Gli toccherebbe la pena di vivere il suo giorno per giorno con l’angoscia di poter perdere il lavoro, con la paura di inquinare inesorabilmente i suoi rapporti con il capo, con il timore nient’affatto strisciante che questa economia perversa incida in modo cattivo sui conti della “sua” azienda e costringa il titolare a una ristrutturazione dolorosa. Per cui metterlo alla porta. E tutto questo senza che l’interessato abbia minimamente giocato la sua partita, nel senso che buoni comportamenti, buona lena, cosciente applicazione del contratto gli servirebbero zero in caso di “liberi tutti”.

Parallelamente, da un’altra casa di buon mattino uscirebbe un signore altrettanto incline alle variabili della vita e alle sfumature dell’animo umano, ma decisamente più sereno sul piano della tranquillità del posto di lavoro. Mai in discussione neppure sotto attacco di una squadra di caccia bombardieri. Quel signore è uno «statale». Certo, potrebbe vivere quella fase in cui (ri)considerare il grado di soddisfazione per un lavoro che magari si è ingrigito nel tempo, a cui una stanca ripetizione spalmata negli anni ha tolto quella patina di entusiasmo degli inizi, ma sul fatto che anche “un domani” il lavoro ci sarà e la pensione anche, beh su questo cuscino di piume il nostro caro signore potrà addormentarsi serenamente ogni notte.

Questo enorme dislivello sociale, che alcuni chiamerebbero persino discriminazione, è compatibile con lo sviluppo di un’Italia giusta, con la modernità di un Paese nuovo come il nostro presidente del Consiglio ambirebbe? La risposta che parrebbe scontata, all’interno della compagine governativa si è fatta pateracchio farsesco con norme “ad excludendum” che prima entrano e poi escono, con ministri silenti che poi al massimo balbettano qualcosa di incomprensibile (Poletti e Madia, complimenti) e alla fine con un premier che si rende conto del pasticcio e rimanda, lavandosene le mani, tutta la questione al Parlamento (salvo poi, a domanda diretta nella conferenza di fine d’anno dichiararsi paladino del merito per cui anche i lavativi statali – “chi ruba lo stipendio” – andrebbero cacciati) .

Giuristi autorevoli, interpellati sull’argomento, dicono molto chiaramente due cose solo apparentemente contraddittorie. La prima: che questa riforma del Jobs Act non si potrebbe applicare agli statali, ma solo per questioni meramente tecniche e che quindi ci sarebbe la necessità di intervenire con una riforma ad hoc. La seconda è che la necessità di intervenire è del tutto evidente. Questo dislivello sociale non può (più) esistere.

Evitando populismi da strapazzo, va detto che licenziare un dipendente statale dovrebbe fondarsi su motivi radicalmente diversi da quelli di un dipendente di un’azienda privata e per un motivo chiaro ed evidente. Mentre nel privato la ragione fondativa dell’impresa è il profitto, da cui discendono tutte le conseguenze economiche che possono portare a un’interruzione del rapporto prevista dalle norme del Jobs Act, la struttura pubblica – un ministero, la scuola, un ente – ha una «mission» decisamente diversa, in cui il profitto in senso classico e liberale non è contemplato (ma la buona amministrazione sì). Per cui i profili di valutazione di un dipendente esulerebbero dall’elemento puramente economico per abbracciare merito, rendimento, ecc.. Purtroppo i sindacati di categoria fanno semplicemente resistenza passiva senza un minimo di buon senso. Sentite cose patetiche, per esempio che le regole per licenziare uno statale ci sono già, tipo: “Se uno ruba, è chiaro che lo si manda via”. Siamo su un altro pianeta, ma i sindacati si ostinano a rimanere su questa terra.

 

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