Criminalità

Dal Sud a Milano “mamma mafia” offre welfare parallelo

30 Novembre 2014

C’è un welfare parallelo a Reggio Calabria come a Roma e Milano: e a pagarlo sono le mafie. Dal lavoro alla casa, la lista dei servizi che offrono i clan è infinita e sta dentro un sistema economico efficentissimo che la crisi la cavalca e la crea insieme. È nel Sud dello svilluppo fermo al palo che si impara più in fretta quanto scendere a patti con i clan possa garantire opportunità di reddito, ma la teoria dei vasi comunicanti è sganciata dalla geografia e si gioca sul piano della politica: tutte le volte che lo Stato e le istituzioni arretrano, le mafie avanzano e creano consenso sociale. Ci sono arrivati lentamente anche al Nord, con le città lombarde sbattutte in prima pagina per essere state teatro dei riti di affiliazione alle ‘ndrine (che credevamo folklore da cappola e lupara) e per i numeri dell’imprenditoria malata: su 322 rinviati a giudizio per mafia tra il 2000 e il 2012 dalla Procura di Milano nell’ambito di 64 procedimenti, uno su dieci è un imprenditore colluso (dati Camera di Commercio di Milano, Assimpredil-Ance e Università Bocconi). Oppure per i dirigenti sportivi (marzo 2014) caduti nella trappola dell’usura, come Giuseppe De Marinis, ex presidente della Nocerina, al quale i ritardi nei pagamenti sono costati un pestaggio che gli ha danneggiato la retina ad un occhio. L’ultimo allarme in terra lombarda riguarda il presunto racket delle case occupate: «Non è che vogliamo cercare la mafia anche dove non è – ha detto qualche giorno fa la presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi – ma quando esplodono fenomeni così gravi, con comportamenti che molti riconducono alla pratica del racket, non bisogna sottovalutare il rischio di infiltrazioni mafiose, faremo un approfondimento».

Si fatica invece a recuperare consapevolezza a Roma (il basso Lazio, dicono, è troppo vicino alla Campania per non prendere atto della pervasività delle mafie) che fino all’altro ieri si raccontava la favoletta dei “casi isoltati” di mafia e del “rischio infiltrazioni”. Un reiterato negazionismo che ha favorito i clan nella conquista della Capitale, che ha valorizzato il loro talento a battare all’asta i diritti. Per questo l’Associazione antimafie daSud ha sentito l’esigenza di mettere in fila i fatti di cronaca e ricostruire il welfare delle mafie a Roma nell’e-book “Mammamafia. Il welfare lo pagano le mafie” (Terrelibere.org, un’inchiesta collettiva curata dal giornalista Danilo Chirico), nel tentativo di spiegare che con la violenza agitata o praticata, i clan nella Capitale metteno le dita nella povertà e solleticano l’ingordigia. Con estremo successo. Un esercizio semplice per chi non ha mai il conto in rosso e può comprare tutto, anche la libertà. Così davanti ai clan si mettono in fila tutti, come si fa agli uffici di collocamento, disoccupati e imprenditori, criminali e avvocati, elettori ed eletti. Qualcuno lo fa quasi a sua insaputa, talmente è stratificata e fitta la salita che separa i soldati dai boss. Come ad esempio insegna il mercato della droga, quello più solido, che serve a gestire posti di lavoro e controllo del territorio: è fatto anche da giovanissime sentinelle che guadagnano almeno 50 euro a prestazione (il modello San Basilio e quello Tor Bella Monaca, per intenderci), da custodi incensurati che usano le loro case come deposito della droga per pagarsi l’affitto o con la promessa della pensione di invalidità (come dimostrano gli arresti a Cinecittà, nel 2013). Ultraottantenni che hanno conquistato il titolo di “nonni pusher” per aver spacciato cocaina a Piazza Re di Roma (maggio 2013) o comodamente da casa, come ha fatto l’anziana madre di una 25enne arrestata nel quartiere Appio Latino (a novembre dello stesso anno). E ancora, gestori di locali che non abbassano la saracinesca perché arrotondano facendo da “basi di appoggio logistico” dei “trafficanti” di droga (l’ultimo caso il 30 maggio scorso a Casal Bertone) o perché puntano sul gioco d’azzardo, con le macchinette controllate dai clan che sono anche lavanderie di soldi sporchi. Un ingranaggio perfetto per le mafie quello delle slot machine: giochi, ti indebiti e chiedi prestiti agli strozzini.

Esiste poi il welfare sulla salute, fatto di tangenti e corsie preferenziali che possono sensibilmente ridurre le liste d’attesa (che non si denuncia per una riconoscenza perversa e umanissima), e anche qui è facilissimo scivolare nella trappola dell’usura ad uso e consumo della criminalità. Esiste un servizio di “security” che si traduce in verità nel pizzo pagato per evitare che ti sfascino la vetrina del negozio, si paga nel Centro storico come in periferia, “conviene” dicono i commercianti “e si sta tranquilli” a metà del costo di mercato. Esiste il welfare ai detenuti, gentile concessione dei capi, che serve a pagare gli avvocati, a tenere in piedi le loro famiglie e «chi gli sta vicino, chi li accompagna generalmente» come rivela il pentito Sebastiano Cassia parlando del modello Ostia e del clan Fasciani: «Che ne so, come me, quando io mi accompagnavo a loro a me non sono mai mancati i 5/600 euro dentro la tasca». Un welfare variabile a seconda dei contesti: «Si va dai mille euro ai quattromila. Dipende: se sei solo o hai famiglia, se spari o vendi droga, se sei giovane o con anzianità». Un welfare per i buoni e uno per cattivi, volendo semplificare e tenendo bene a mente che basta poco per scivolare dall’una all’altra parte.

Le storie che mette in rassegna l’e-book “Mammamafia” descrivono una città che è Capitale anche perché rappresenta la sintesi di quello che avviene in tutto il Paese: quartieri ostaggio dei clan che traggono vantaggio dal disagio sociale. Che decidono chi deve avere una casa e chi no. A raccontarlo è stato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone presentando il blitz Nuova Alba di Ostia: «Dalle intercettazioni ambientali risulta che Carmine Fasciani destinava a modo suo appartamenti popolari a persone a lui vicine». A Ostia infondo le dinamiche sono quelle da paese, «se uno sta in difficoltà si viene a sapere» ,rivela Cassia, e così le mafie si attivano per fare da bancomat: «Qualcuno che lavora dentro una banca che ti dice… è venuto per un prestito, si viene a sapere perché? Perché bene o male o c’hai qualcuno che c’ha una finanziaria o qualcuno… cioè se viene a sapere, in poche parole, in giro…». Le stesse banche che sbarrano le porte ai comuni mortali e che però quando si tratta di favorire i boss non ci pensano due volte. Alla ‘ndrina dei Frisina ad esempio è bastato prendere una testa di legno, un giovane incensurato e senza reddito che pure ha ottenuto da una filiale di Mediobanca un finanziamento da 235mila europer comprare casa nel quartiere Boccea. Stesso quadrante di Roma dove sempre i Frisina, con il reddito dichiarato nella soglia di povertà, chiede un prestito di 292 mila euro e la Banca delle Marche senza fare una piega gli concede addirittura 60mila euro in più nel giro di poche settimane. Comprano e gestiscono ristoranti (23 quelle sequestrate a Roma quest’anno ai comorristi Contini-Righi), centri benessere, discoteche e centri scommesse, in un contesto economico in cui solo nel 2013 nel Lazio sono fallite 828 imprese e i finanziamenti a famiglie e imprese sono calati del -5,9 per cento rispetto all’anno precedente.

E naturalmente danno lavoro, a parenti ma anche a sconociuti. Per questo quando arriva il sequestro i lavoratori generalmente stanno dalla loro parte. “Io ho perso il lavoro e voi politici festeggiate? Non siamo mafiosi” rispondeva sui social network una lavoratrice al comunicato stampa di un consigliere municipale che si complimentava con le forze dell’ordine per il blitz. Per questo la partita sui beni confiscati, sulle aziende soprattutto (quelle che possono essere salvate, e non quelle fittizie che servivano solo a riciclare soldi sporchi o a dichiarare lavori fittizi), è fondamentale. Invece accade che le banche «dopo aver concesso il credito senza problemi al mafioso, appena arriva l’amministratore giudiziario, lo revocano o vogliono garanzie improbabili» dice Pignatone, e gli amministratori giudiziari che devono mettere in regola i lavoratori e pagare le tasse, devono fare i conti con il fisco che «arriva e vuole pure pagati tutti gli arretrati che non aveva chiesto finché il mafioso era lì, magnificamente seduto al posto di comando».

Ci sono poi i professionisti che si mettono a disposizione. Senza pudore alzano il telefono e si rivolgono direttamente alle famiglie mafiose per curare gli affari delle loro aziende gestite rigorosamente da prestanome. Lo fa uno studio di commercialisti di Ostia che chiama la moglie di Carmine Fasciani: «La disturbo perché c’è la scadenza dell’Inail, praticamente la tassa che si paga per l’infortunistica sul personale dipendente» e «voi avete avuto un po’ di movimento di personale nel 2008… gente che è stata assunta logicamente per la stagione». E ancora: «Voi avete intenzione di fare comunque assunzioni…parecchie assunzioni quest’anno?… Lei e suo marito, penso proprio di no giusto?». Avvocati come Marco Cavaliere che aveva messo in fila una parcella milionaria dopo l’altra procurando perizie mediche false a boss, trafficanti di droga e killer. Con una cifra che si aggirava tra i 30 e i 70 mila euro, aveva assicurato ai suoi assistiti gli arresti domiciliari o il ricovero in cliniche priva te romane compiacenti, dalla Sant’Alessandro che ha ospitato il boss Michele Senese (non a caso detto ‘o pazzo’) all’Aurelia Hospital, residenza del trafficante [omissis per intervento diritto all’oblio].

Ogni connessione si appoggia su un’idea precisa di welfare, quella per cui le alternative devono essere ridotte all’osso. L’ha spiegato meglio di altri la magistrata Simonetta D’Ambrosio, commentando l’operazione ‘Tramonto’ della Guardia di Finanza sempre a Ostia, a marzo 2014: nella «pulviscolare mafiosità dell’economia ostiense i “destinatari del servizio” sono messi nelle condizioni di non trovare alternativa per l’accesso ai beni essenziali: il mare, l’aria, la salute». Per questo i fatti di cronaca vanno letti insieme, anche se non sono tutti riconducibili direttamente alle mafie, perché aiuta a capire su quale terreno si muovono le mafie e con quale tipo di prevenzione è possibile rallentargli il passo. Per la stessa ragione avrebbe senso preoccuparsi del disagio sociale, non in ottica securitaria, ma per le conseguenze che comporta. Tra cui il fascino di “Mammamafia”.

(foto di Eneas de Troya)

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