Costume
Tea Falco, Internazionale e l’italiano degli attori
È apparso recentemente, su Internazionale un articolo di Matteo Bordone, il quale – con lo slancio degno di Pasolini e delle nuove questioni linguistiche – se la prende con gli attori italiani perché parlano italiano. Il caso è stato sollevato dall’interpretazione della signora Tea Falco, in una fiction tv che fa molto parlare di sé: 1992.
Bordone è un bravo giornalista, ma qui procede per luoghi comuni e prese di posizione che non condivido. Dopo aver citato la produzione Sky della fiction, infatti, presenta il personaggio interpretato dalla signora Falco, descrivendola come «psicologicamente instabile, viziata e autodistruttiva come sono spesso le figlie dei milionari al cinema, Bibi Mainaghi ha un’espressione strafottente, e una voce svogliata che a volte rende difficile la comprensione delle parole». Tanto basta a Bordone per sollevare il problema linguistico, ovvero l’uso dell’italiano nel teatro, al cinema, e in tv. Ennio Flaiano se l’era cavata con una battuta delle sue, dicendo più o meno: «L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori». Invece Bordone disquisisce sulla inascoltabilità della cosiddetta “dizione”, ovvero del parlare, appunto, un italiano corretto. Lui preferisce il dialetto, la lingua di strada.
Non seguo le fiction tv, dunque non entro nel merito della prova attorale della signora Falco, che sicuramente avrà dato il meglio di sé per quel ruolo. Ma, colgo l’occasione dell’articolo, per provare a chiarire meglio alcuni punti su cui mi sembra, invece, Bordone sia poco chiaro. Il pezzo, infatti, cade su un doppio fronte.
Per quel che riguarda il teatro, liquidato troppo velocemente dal giornalista di Internazionale, abbiamo assistito – almeno da metà degli anni 90 – ad un impetuoso ritorno del “dialetto” in scena. Gli spettacoli, tutti o quasi, sono fin troppo segnati da cadenze linguistiche regionali: in Francia la Comédie Française si è fatta carico di tenere vivo il francese di Racine, Corneille o Molière, nell’Italia teatrale la “lingua” rischia di essere scavallata proprio dal dialetto. Per fortuna, però, non mancano autori e drammaturghi che fanno ricerche raffinatissime in fatto di linguaggio e lingue regionali. Il bellissimo siciliano contemporaneo di Franco Scaldati, di Emma Dante, di Spiro Scimone, di Davide Enia (tanto per citare solo alcuni artisti) è solo un esempio. Ma che dire del napoletano (vale la pena ricordare a Bordone i vari Viviani, Scarpetta, Eduardo De Filipppo e arrivare a Ruccello e Enzo Moscato?); del toscano di Ugo Chiti o dei tanti comici; del romanesco (che ormai dilaga in tv, in radio, al cinema?), del veneto (da Goldoni in poi), financo del milanese. Insomma, se c’è un problema, è piuttosto il contrario di quello che troppo velocemente – e forse snobisticamente – individua Bordone: siamo all’eccesso di dialetto, quasi che dire “ammore” sia più vero e autentico che dire, semplicemente, “amore”.
E questa invasione è facilmente riscontrabile. Sullo schermo, sul palcoscenico, in tv, persino nelle pubblicità: perché la “lingua della porta accanto” è diventata sinonimo di verità, autenticità, addirittura complicità sottesa tra produttore e consumatore. Il guaio, allora, è la eterna, pasoliniana, “infatuazione semantica”, in cui scivola anche Bordone: dialetto è bello in quanto popolare, schietto, vero. Non sempre è così.
La questione attorale, poi, è decisamente altra: e qui Bordone pecca di faciloneria. È vero, ogni lingua è un sistema vivo, aperto, in costante evoluzione, eppure resta fondamentale la conoscenza, il rispetto, la frequentazione del “sistema” linguistico generale che indichiamo come italiano. Frutto di convenzione e storicizzazione successiva, d’accordo, ma l’italiano è una delle lingue più affascinanti al mondo. Bordone lo sa: l’Opera e la musica parlano ovunque italiano, in un “codice” difficilmente aggiornabile al dialetto o al gergo quotidiano quale sia. E per fortuna, dico allora, che ci sono autori che scrivono ancora in un italiano vivo e bello (cito solo Stefano Massini) e doppia fortuna che ci siano gli attori e le attrici.
Nel nostro paese (almeno a teatro) abbiamo attori bravi, formati, che sanno recitare in italiano o dialetto; che sanno interpretare magistralmente personaggi “difficili” (come può essere quello di una figlia di miliardari psicologicamente instabile…); che sanno essere intellettuali, vivi, presenti, attenti alle questioni linguistiche, sociali, culturali, politiche. Per questi interpreti, che si allenano, che studiano, che si confrontano con il pubblico quotidianamente, l’uso dell’italiano è arte: è far risuonare bene, al meglio, il proprio strumento. L’attorese, di cui parla Bordone, forse risuona solo in bocca ad attori meno capaci, che “sbrigano”, con uno slang posticcio, finto-quotidiano, il proprio lavoro interpretativo. Un modo come un altro per aggirare il problema. Su questo, magari, dovremmo riflettere.
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