Costume

Perché dovrebbe importarci molto del nuovo disco di Cristina D’Avena?

11 Novembre 2017

Era il 1988 o qualcosa del genere. Frequentavo la scuola materna, portavo i capelli alla Fantaghirò molto prima che fosse “cool” e sono rimasta fuori dai cancelli al concerto di Cristina D’Avena al palazzetto dello sport. Biglietti esauriti o – forse – era solo una via d’uscita escogitata dai miei genitori per non dover resistere, per almeno due ore, nel girone dei dannati formato da un pubblico di “under 8” scatenato.

A distanza di quasi 30 anni è uscito l’album “Duets” nel quale la cantante, eterna giovane studentessa di medicina che “non mi sveglio la mattina” e “rido quando canto, mi diverto tanto”, ripropone alcuni suoi grandi classici riarrangiati in collaborazione con importanti artisti italiani. Una buona trovata commerciale, ma non solo questo.

“Duets” parla di oggi più di quanto possa fare qualsiasi analisi sui Millennials e i “post Millennials”, più delle generazioni precarie, più delle classi disagiate. Parla del 2017, di un mondo di “diversamente giovani” quarantenni, di mediamente giovani trentenni e di giovani veri. Parla di un percorso sociale lungo almeno 30 anni.

Partiamo da un fatto all’apparenza elementare: è la prima volta che accade una cosa del genere. Immaginiamo Guccini intento a cantare “Quarantaquattro gatti” o, per stare sul “pop”, Celentano che si cimenta, in sala registrazione, con la canzone di Mariarosa di Carosello. Suona surreale? Eppure è quello che Elio, la Bertè, J-Ax, Arisa e molti altri hanno fatto. Con estrema serietà e fuori dal contesto di una performance estemporanea hanno preparato il prodotto idele per il consumo di un pubblico di nostalgici costituzionali, gli stessi che, magari inconsapevolmente, rimangono ipnotizati davanti a Stranger Things, non solo per la sua trama, ma anche e soprattutto per quel clima che la serie richiama: pettinature alla Happy Days, atmosfere alla E.T., fotografia alla Twin Peaks e citazioni musicali a non finire. Inquietante, certo, ma con l’aria di casa. La stessa aria di casa che buona parte di noi respira ascoltando “Duets”, quell’atmosfera rarefatta che si è formata, quasi superfluo dirlo, negli anni d’oro di Mediaset. Mentre i genitori guardavano Drive In, godendo della relativa immunità garantita da paradigmi mentali già strutturati (per quanto anche su questo ci sarebbe molto su cui riflettere), i figli macinavano ore di Bim Bum Bam e la colonna sonora delle loro colazioni, dei loro pomeriggi, delle loro prime festicciole era Fivelandia. E dallo schermo Cristina D’Avena arrivava non solo sotto forma immateriale con le sue canzoni, ma in carne ed ossa nell’allora seguitissimo (almeno fra gli “under 10”) telefilm “Arriva Cristina”.

Tutto questo televisivamente molto prima delle icone di Disney Channel, tutto questo alla portata di tutti, su una tv privata, ma gratuita. Escludendo infatti lo sparuto gruppo di coloro che, per scelta dei genitori, sono cresciuti senza televisione, non esiste ex bambino degli anni 80/90 che non abbia frequentato Canale 5 prima e Italia 1 poi per intere giornate. Nessuno che non ricordi i pupazzi One e Four (il povero Five invece ha goduto di minor fortuna, bisogna ammetterlo), nessuno che non abbia assistito almeno una volta ai giochi a sfondo commeciale presentati dal giovanissimo Paolo Bonolis.

Non stupisce quindi che l’uscita di “Duets” abbia provocato nei “giovani mica poi tanto giovani” lo stesso effetto di un consistente morso alla famosa madeleine di proustiana memoria. Ma come mai oggi e come mai per le generazioni precedenti questo recupero del passato non si è mai fatto sentire in modo così forte da giustificare un’impresa commerciale di questo tipo? Il tema non riguarda solo le sigle dei cartoni animati. Il vintage, ad esempio, ha avuto un boom negli ultimi anni, non che prima, tuttavia, mancasse la possibilità di recuperare la vecchia giacca del nonno o il maglione della mamma. L’ampliarsi del pubblico (e delle tipologie di oggetti commercializzati) nei mercatini del modernariato. La commercializzazione di prodotti da “retromania” (impossibile pensare che tutti coloro che acquistano un giradischi portatile lo facciano per il gusto di ascoltare – con che qulità poi! – i propri vinili) e la produzione, ex novo, di oggettistica, veicoli, capi d’abbigliamento, arredo il cui design arriva dal passato. Qualcuno l’ha definita incapacità di creare qualcosa di nuovo.

Musica, moda, design, letteratura, cinema: tutto è già stato detto o pensato, si può solo ripetere.“Duets” sarebbe quindi l’esempio ultimo di questa sterilità epocale, un momento storico in cui non essendoci nulla da aggiungere, si ammazza il tempo come si può.

Un momento in cui la nostalgia diffusa ha annullato anche il divario generazionale che, un tempo, faceva rimpiangere il passato ai più anziani e disprezzarlo ai più giovani. Invece, dopo l’ondata di adulti vestiti da giovani degli anni 2000 (le mamme in jeans strappati e top in microfibra delle figlie), potremmo finire – oggi, novembre 2017 – ad un concerto di Cristina D’Avena in cui figli poco meno che ventenni di genitori poco più che quarantenni si presentano assieme, vestiti uguali, con capi comprati o recuperati da armadi spaziotemporali.

E questo è qualcosa di profondamente nuovo.

Tutto questo ha anche una base di carattere economico: nuova è certamente la condizione di crisi permanente nella quale viviamo, che porta i ventenni a rimpiangere i tempi in cui gli attuali cinquantenni si potevano permettere di disprezzare il posto fisso, così come nuova è la presa di coscienza che, forse, la storia non procede linearmente verso il progresso e che il progresso stesso potrebbe non essere più rappresentato dal “nuovo come lo conosciamo”, dal “di più”, dall’ accrescimento, dall’espansione. La vera novità potrebbe essere data dalla costruzione di un paradigma diverso, quello del recupero e del riuso, del ricongiungersi di spazi trascurati – in favore del modello lavoro-dipendente – delle relazioni e della “leggerezza”.

Questo arresto dell’avanzamento (assai poco momentaneo, assai poco di crisi), parla la grammatica universale di chi ha fra i 20 e i 40 anni: uno spazio intergenerazionale che va da Lady Oscar a One Piece, dalla Bertè a Baby K.

Per la prima volta davanti ai cancelli del palazzetto dello sport non ci sono genitori recalcitranti e figli scatenati: davanti al palazzetto ci sono quasi tutti, genitori, figli e figli piccoli dei figli che si avvicinano a Cristina D’Avena perché canta con quello che canta con Fedez. Ci sono anche quelli che criticano e si presentano per osservare e “mappare”.

Limitarsi a considerare un fenomeno meramente commerciale l’uscita di “Duets” è un’operazione di snobbismo culturale che non consente di vedere il potenziale, non tanto dell’album, che è poco più di un divertissement fra musicisti, quanto del contesto di ascolto. Questo ampio spazio intergenerazionale che, lentamente, sta digerendo gli anni 80/90, rielaborandone gli eccessi secondo schemi che vanno dalla sterile ripetizione alla rielaborazione creativa più originale. Un gruppo sociale che, consapevole di far parte, più o meno profondamente, della generazione della crisi, della classe disagiata, degli eterni precari, depone le armi per un momento di disimpegno e leggerezza.

Per capire un determinato momento storico, sia inteso socialmente, politicamente, culturalmente, bisogna ascoltare. Ecco perché dovrebbe importarci molto del nuovo disco di Cristina D’Avena. Buon ascolto.

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