Costume

Sugli italiani:Leopardi il primo, la Ginzburg icastica e perfetta, Flaiano stufo

3 Luglio 2015

Prima o poi uno scrittore incontra i propri connazionali. Ed è quasi sempre  uno scontro.  Memorabile quello di Thomas Bernhard  con gli austriaci. Buona parte della sua opera è una lucida invettiva contro i propri connazionali, quegli austriaci che credono e hanno fatto credere che Beethoven fosse austriaco e Hitler tedesco.  Ma non meno clamoroso quello di Strindberg con gli svedesi  estrinsecato con  “Il popolo svedese” (1881-2) la cui pubblicazione e le susseguenti  feroci critiche  lo indussero  ad abbandonare il suolo natio. Stessa sorte toccò a Ibsen coi norvegesi.

Nel nostro Paese abbiamo dovuto attendere il 1906 per vedere pubblicato il più accorato e acuto saggio  sugli italiani fino ad allora inedito:  “Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani” di Giacomo Leopardi (scritto nel 1826), ben presto dimenticato e quasi mai al centro di studi particolareggiati da parte dei figli di Academo, tanto che si è dovuto attendere per una pronta rimessa  in circolazione  prima una memorabile antologia di scritti leopardiani a cura di Vitaliano Brancati nel 1941 “Società lingua e letteratura d’Italia” (Bompiani 1941, nei tascabili Bompiani 1987)  e infine il saggio di riferimento  “L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione” (Einaudi, 1983) di Giulio Bollati che mise il testo leopardiano al centro del dibattito sui connazionali, com’era giusto che fosse.

Nella prefazione dell’antologia leopardiana a cura di Vitaliano Brancati, nel suo stile fantasioso e baroccheggiante, si possono leggere queste belle parole.

Dopo i tempi in cui visse Leopardi, si cominciò ad amare l’Italia come una vecchia zia che deve lasciare l’eredità. Si sperava di ricavare molto, il più possibile da quest’amore. Tutti indistintamente fecero professione di amarla; e se in una sera d’estate, si domandava a un bravo cittadino, ritto sotto un lampione, col naso in su, e le mani nelle tasche, che cosa facesse così solo e fermo, egli avrebbe potuto risponderci: «Io? Amo l’Italia!» Molta avarizia e molta stupidità entrarono in ques’amore, con effetti visibili, perché a una persona o a un’idea non può capitare peggior disgrazia che l’essere amata stupidamente. Di un amore stupido, tutto è meno increscioso, anche un odio stupido.

Un testo, quello di Leopardi, destinato a  riaffiorare  nei momenti di crisi dell’identità nazionale. Dopo Tangentopoli  per esempio ha avuto un vero e proprio boom di riedizioni (ne ho  contate una dozzina) quasi che si intendesse chiedere al poeta- filosofo chi siamo nell’intimo.  E lui ci ha risposto che siamo nella sostanza  quelli della “commedia all’italiana”, tanto sono  incistati  nella “lunga durata” i tratti del nostro carattere nazionale.

Leopardi redige il suo saggio sugli italiani a seguito degli scritti di M.me de Staël soprattutto “Corinna o l’Italia” (1807) la quale a sua volta si appoggia perlopiù sulla visione “Pugnali e veleni” dello Shakespeare “italiano” (15 pièce su 37 !, da “Giulio Cesare” a “Il mercante di Venezia”, passando per “Giulietta e Romeo”) e fornendo a sua volta, M.me de Staël, materiale a Stendhal come sottolinea il suo maggior biografo Michel Crouzet in “Stendhal et l’italianité: Essai de mythologie romantique” (1° ed. 1982, nuova ed. 2006).

Alcune note en passant.  La de Staël è straniera e considera, questa sua, una condizione privilegiata, portatrice di uno sguardo “persiano” o meglio d'”une posterité contemporaine”, quasi che l’estraneità assicuri uno sguardo immediatamente distanziato (regard éloigné dirà Lévi-Strauss). Leopardi afferma che è «impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente un’altra nazione, massime dopo non lunga dimora». Esaminando però i costumi dei propri connazionali, invoca per sé «la libertà e sincerità con cui ne potrebbe scrivere uno straniero ». E tale doveva essere la condizione del poeta sublime ed autentico, straniero fra connazionali cinici e superficiali (come egli esattamente li vede) costretto a nascondere, come tanti suoi compatrioti di ieri e di oggi, la propria intelligenza come una gravidanza indesiderata, per difenderla dall’incessante assalto concentrico e concertato dei mediocri e degli stupidi…

Sull’argomento, Jean François Revel (“Pour l’Italie”, Paris, Laffont, 1977, ma 1ª ed. 1958) avrà le parole più brillanti e più giuste : «Nous avons le droit de juger l’étranger dans la mésure où il cesse de nous être étranger, et où, tout en étant chez lui, nous sommes chez nous”. La formula si può rovesciare: giudicare i propri connazionali come uno straniero (nel ‘700 andavano di moda i “persiani” per descrivere i francesi, vedi Montesquieu…) e pur restando in noi, da italiani, occorre “vedere” come uno straniero…

Lo scrittore contemporaneo che più di ogni altro ha messo al centro della riflessone critica e della sua produzione creativa  la “cosa italiana” è senza dubbio Alberto Arbasino:  da “Fratelli d’italia” a “Un Paese senza” a “Paesaggio italiano con zombie” è tutta una scrittura tersa, ironica e atrabiliare sui costumi nazionali. Arbasino merita una nota a parte, che scriverò quanto prima. Ma non sono da trascurare i contributi di scrittori non meno noti e illustri:  Prezzolini, Brancati, Piovene, Placido & Montanelli, Berardinelli, Schiavone, Gambino,  Vassalli, ecc, segno che l’Italia e soprattutto gli italiani sono una “metafora ossessiva” per molti.

“Le piccole virtù”  (1962) di Natalia Ginzburg va messo in questa scia di meditazione civile sul carattere nazionale italiano. Ecco un bel passo.

 L’Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue. È un’intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di alcuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana. Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d’un ingannevole, e forse insensato, conforto.

Infine Ennio Flaiano, il perfetto scrittore di saettanti aforismi. A lui si deve la feroce battuta:  «Quella degli italiani è l’ultima invasione barbarica che si è abbattuta sulla Penisola» (letta molti anni fa, non sono riuscito a rintracciarne il luogo esatto).  Ma alla fine si stufò di questi scritti anti-italiani e ne scrisse uno di elogio partecipe, controcorrente e risentito,  rispetto al lamento permanente verso i costumi dei Peninsulari.

Il difetto maggiore degli italiani, di Ennio  Flaiano

Credo che il difetto maggiore degli italiani sia quello di parlare sempre dei loro difetti. In nessun altro paese inchieste simili sarebbero accolte con simpatia: qui vengono sollecitate. Ora, quelle poche volte che sono stato fuori d’Italia mi sono trovato tra popoli perfetti, tra gente che, sapendomi italiano, non mi nascondeva la sua compassione per i miei difetti meridionali e mediterranei. Alla fine mi sono stancato. Ho superato l’età dell’indignazione e non sono più d’accordo con i moralisti di casa che rimproverano all’italiano medio di non essere un paradigma sociale o morale. L’italiano medio è quello che è e i suoi difetti cominciano a piacermi. Mi piace, per esempio, che sia generalmente bugiardo. Non credo che avrebbe potuto vivere in questo paese per tremila anni senza adattare la cruda verità ad una ragionevole menzogna. In un territorio di conquista e d’invasione l’italiano aveva un solo mezzo per difendersi, nascondere la verità o perlomeno ritardarla. (Anche oggi lo Stato, attraverso molti suoi organi, gli impone di essere bugiardo, o reticente). Mi piace che pensi sempre alle donne. Perché non dovrebbe pensare sempre alle donne? Che c’è di meglio? Gli uomini, forse? Bene, allora lasciatemi ai miei gusti. Mi piace che sia pigro. […] Mi piace che sia gentile, sentimentale, cinico, spendaccione, imprudente, frivolo, fastoso nelle sue cerimonie. Sono modi di amare la vita, di volerla capire, di forzarla, di esaltarla. […] Mi piace che sia generalmente estroverso e che ami vivere alla giornata. Questo gli ha permesso di amare l’arte, di arricchire il suo paese di monumenti o di distruggerli senza troppo rammarico. […] Non pensiamo mai che l’italiano ha sviluppato i suoi difetti come altrettante forme di difesa, per aderire a una realtà storica, al clima, alla povertà del suolo, all’angustia dei mari, alle varie tirannie spirituali ed economiche; per essere, infine, il più razionale ed economico possibile nelle sue manifestazioni di vita, cioè utile a se stesso, e andare avanti, continuare la specie. Senza i suoi straordinari difetti l’italiano oggi non esisterebbe, e sarebbe un gran male. La Natura o, se vogliamo, la Civiltà, ha dato all’italiano un gran compito: quello di sopravvivere. […] Si chiedeva uno scrittore americano (mi dispiace di non ricordarne il nome) che cosa resterebbe sulla Terra dopo una terza guerra mondiale. E rispondeva: “Di sicuro, cinquanta milioni di italiani”. Ciò può essere triste, ma è anche confortante.

Ennio Flaiano, “Frasario essenziale per passare inosservati in società”, Intr. di G. Manganelli, con uno scritto di V. Scheiwiller e una nota di A. Longoni, (a cura di E. Sgarbi e V. Scheiwiller), Bompiani 1993.

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Vedi anche su “Gli Stati Generali”:

“Il dolore di essere italiani”, di Giulio Savelli

L’ossessione italiana per la “bella figura”

Perché gli italiani non leggono?

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