Costume

“Il dolore di essere italiani”, di Giulio Savelli

25 Maggio 2015

Già Luigi  Barzini jr nel suo imprescindibile  Gli italiani  (1964) ci aveva messi sull’avviso:

La più gran parte di ciò che avviene da noi non è necessariamente ‘all’ italiana’. Tuttavia le cose ‘all’italiana’ non devono essere prese alla leggera. Sono indizi preziosi.(…) mostrano che ancora oggi come nel passato certe imprese ci riescono senza sforzo e che altre sono per noi praticamente impossibili; hanno chiaramente determinato l’andamento degli eventi trascorsi; senza alcun dubbio, determineranno il nostro avvenire. Forse per noi non c’è scampo. Ed è questa sensazione di essere in trappola entro i limiti inflessibili delle tendenze nazionali a far si che la vita italiana, sotto la sua superficie scintillante e vivace, abbia una qualità fondamentale di amarezza, disappunto, e infinita malinconia.

Adesso, da questo acuto pamphlet di Giulio Savelli, Il dolore di essere italiani, giungono alcune precisazioni su questa “infinita malinconia”. Forte è la mia curiosità, nell’aprire il volumetto,  di scoprire come Savelli affronta alcune specifiche impasse che la tematica «carattere nazionale» di solito oppone. La mia esperienza è che i nostri interlocutori gettano, non appena si tenta di avviare ogni discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani, per riprendere il celebre titolo di Leopardi, alcune pietruzze  nell’ingranaggio argomentativo . La prima: perché stai a cianciare di italiani quando sei italiano pure tu? Sei forse migliore di noi? La seconda, che è pietruzza a  due facce, è un preciso sentimento ambivalente: da un lato constatare che vige  il più grande disprezzo dell’italiano per l’italiano –  che occorre talvolta arginare-, e dall’altro la difesa d’ufficio – che bisogna ugualmente rintuzzare-,  anche la più partigiana e arcigna  dei propri costumi, una sorta di autolatria senza se e senza ma, specie quando si viene paragonati ad altre nazioni: perché in fondo tutti hanno i loro difetti e gli inglesi o i tedeschi non sono certo migliori di noi, per non parlare dei francesi, e via che in fondo “tutto il mondo è Paese”.

E invero Savelli aggredisce la questione avendo ben presente questo scenario argomentativo e si guarda bene dal procedere a paragoni diretti o  ellittici con le altre nazionalità. Sa peraltro perfettamente che  gli italiani, quelli cattivi, sono sempre gli altri, ma ciò non gli impedisce di affinare  il proprio ragionamento sul fatto che le ferite date e ricevute alla fine non possono che evidenziare uno stato di malessere collettivo, che è difficile negare, perché è sotto gli occhi di tutti.  Il focus sul “dolore” dell’essere italiani  è il segno drammatico che la maionese è impazzita, che è giunto il momento in cui tutti i “tratti” del carattere nazionale – familismo, particolarismo, cinismo  in primis,  sono arrivati al parossismo determinando paralisi e una sorta di  “sequestro emotivo” che i connazionali si sono reciprocamente inferti.

Ma dal punto di vista logico ed espositivo non si può che ricorrere ai cosiddetti “giudizi di prevalenza”. Non “tutti gli italiani”, ma sicuramente “molti italiani”. E così arriva formulata la prima osservazione che è difficile contestare e che riguarda il nostro modo malato di vivere la democrazia, ovvero la convivenza  tra il proprio particolarissimo io e le regole della vita collettiva.

Molti italiani per scansare [la] minaccia di conflitto tra la propria vita e le esigenze della collettività astratta, si sforzano di eludere gli obblighi di cittadinanza, pur sfruttandone i vantaggi immediati e minimi. Considerano i connazionali «gli altri» fessi da fregare, opachi ostacoli ottusi da aggirare; talora esercitano una sorta di furbizia lamentosa e inerte, fondata sulla retorica della recriminazione, che danneggia gravemente chi la pratica e colui che ne rimane invischiato, avvantaggiando solo chi è capace di sfruttarla per il proprio potere politico o criminale ; in altri casi coltivano il proprio particolarismo efficace, ostinato, rigoglioso e deliberatamente miope.

Che questo particolarismo su cui peraltro sono scorsi fiumi di inchiostro, che questa furba rottura del patto di cittadinanza siano il cuore del nostro modo malato di vivere associati sembra inoppugnabile.  Il tema è sotto gli occhi di tutti  e di scena in molti talk shaw televisivi, dai più nobili benché ormai scaduti a rissa continua, a quelli più trash, ove i furbi e “gli altri” si scambiano reciprocamente la barba, come il frate con il diavolo, talché il vociare indistinto e generico ti confonde a tal punto che non sai se trattasi di barba del primo o del secondo, perché ciò che spesso si denuncia rivolti agli altri non è che mera autobiografia dissimulata e contraffatta.

Savelli, più di quanto io riesca a riassumere e a enucleare, si addentra in questo labirinto della “personalità di base” dell’italiano medio. Ne denuncia la sofferenza per la dis-appartenenza identitaria – «La dis-appartenenza dal carattere nazionale, tramutato in dis-appartenenza dall’Italia, è il dolore più acuto ed evidente nella condizione degli italiani» – , ne evidenzia quella zona grigia  «immane e indecifrata, variabile, spesso enigmatica per gli stessi italiani» tra il rispetto delle regole e della loro violazione, ne sottolinea la scissione che a volte si tramuta in vera e propria zuffa permanente degli io individuali spesso polarizzati tra arci-italiani e anti-italiani  (“destra” e “sinistra” perenne?), incapaci di comporsi in un collettivo se non per cacciarsi le dita negli occhi nella denuncia reciproca dei propri vizi, ma nello stesso tempo, questi io dimidiati,  necessari gli uni agli altri per definirsi e per contrapporsi  nella “cattiva infinità” di un dissidio antropologico che sembra non trovare requie.

Singolare  mi sembra la distinzione – anch’essa fonte di sofferenza –che Savelli opera all’interno della identità italiana tra carattere nazionale e ideale nazionale tra ciò che si è in essenza e ciò verso cui occorrerebbe tendere. « Lo spazio del dolore identitario italiano, riflesso in differenti maniere nella soggettività di ciascuno, dipende dalla mancanza di un’egemonia dell’ideale della nazione sul carattere nazionale, o, in alternativa, dalla mancanza della costruzione di un ideale della nazione appropriato in quanto coerente con il carattere nazionale» . Altrettanto precisa arriva la puntualizzazione sulla furbizia nazionale (che dopo il Codice della vita italiana di Prezzolini sembrava non potesse avere miglior disanima) ove Savelli distingue opportunamente una “furbizia primaria” da una “furbizia di risposta”, con le implicazioni di carattere di prevaricazione di tipo sessuale (c’è un elemento di sopraffazione più che simbolica nel fare “fesso” qualcuno – ricordo che il termine “fesso”, come in francese “con” donde “connerie” richiama l’organo sessuale femminile) o al massimo di “evirazione simbolica” del furbo primario, quando ci si riesce. A queste pagine godibilissime e a mio avviso molto originali rimando per capire quanto complesso sia il labirinto dell’identità nazionale.

Altro interessante approfondimento è quello che a me è sempre sembrato il vitalistico anarco-individualismo nazionale. Savelli va più oltre con estrema eleganza analitica. La nostra non è una società anarchica, è ancora più raffinata e perversa. È una  «società che prevede la violazione delle proprie regole».

 Una società di questo tipo non è necessariamente lassista , ma una in cui l’individuo, con particolari accortezze, può entrare e uscire dalle regole (magari rigide e meticolose): non necessariamente più ipocrita di una società rigorista, ma certamente basata su una struttura doppia, in cui c’è un dentro e un fuori, e una membrana porosa a dividere i due lembi. Dove cioè l’adesione coerente a un qualunque sistema di valori definito e condiviso, inteso come giustificazione morale , non è importante per l’identità personale  – pur senza essere una società realmente amorale, in quanto la morale e le leggi son ben presenti, sebbene non personalmente vincolanti . Può essere in definitiva qualunque tipo di società, purché abbia una dimensione in più, in cui l’individuo può stare con se stesso e con gli altri senza alcuna condanna sociale, bensì perfettamente inserito e accettato, considerando di fatto – senza dichiararlo e senza celarlo –il resto della collettività come estranea radicalmente a sé: «gli altri»,  appunto.

Segue la disamina in profondità del nostro modo particolare di stare al mondo cui necessariamente rimando,  non senza resistere alla segnalazione di quegli apoftegmi che più mi hanno  catturato: «In Italia il solo rapporto reale è quello personale»; la preferenza accordata alla cultura orale («meglio telefonarsi che scriversi») e la trascuratezza della lettura; l’orizzonte breve «ciò che ha un minimo aspetto astratto e nessuna utilità pratica e immediata è considerato dagli italiani di pochissimo conto»; la «curiosa preferenza per la bassa qualità e le sue norme» tipica degli scambi sociali italiani.  E anche: « la mancanza di sé fuori dall’esercizio delle proprie relazioni vitali. L’italiano dipende dalla gratificazione che riesce a cogliere, dalla qualità emotiva dei rapporti e delle situazioni, dal piacere nell’esercizio del proprio potere, anche minimo, non dalla forza e dalla coerenza del proprio assetto interiore».

Alla fine vorrei aggiungere giusto un punto di lievissimo  dissenso dalla brillante e acuta disamina di Savelli, benché un punto che  riguarda una categoria di “sofferenti” dove penso di ricomprendermi a pieno titolo. Ed è quando Savelli, nel sottofinale, scrive  con toni eccessivamente dolenti dei «clandestini della cultura, della creatività, della ricerca» ossia di tutta quella torma di giovani «dalle vite bloccate, ferme, silenziose, senza storia» che hanno osato coltivare contro ogni evidenza – e sono davvero in tanti in un “Paese senza” come l’Italia-,   il sogno di una vita intellettuale, creativa, artistica andando incontro a umiliazioni e disorientamento personali. La mia opinione, lungamente coltivata nell’espletamento di quello che giocoforza è diventato il “secondo mestiere”, per dirla con un giovane artista d’altri tempi come Eugenio Montale,  è quella eroica che Savelli dopotutto registra in questi giovani: di non demordere certamente, ma anche di considerare che l’Italia è un Paese molto pratico, che non sopporta,  per esempio,  la lettura di un numero di  libri eccessivo rispetto a quello necessario per vivere. E che pertanto l’unica strategia possibile in uno scenario simile sia quella di Cyrano de Bergerac: di saltellare come spadaccini provetti attorno ai propri obiettivi ideali  e di sperare solo di “toccare” ogni tanto, come spero di aver “toccato” anch’io con la rendicontazione  à la diable di  questo delizioso libretto di Giulio  Savelli.

Savelli_cop

Giulio Savelli, Il dolore di essere italiani, Ebook EUR 0,99

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Vedi anche su “Gli Stati Generali”:

L’ossessione degli italiani per la “bella figura”

Perché gli italiani non leggono?

Sugli italiani:Leopardi il primo, la Ginzburg icastica e perfetta, Flaiano stufo

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