Costume
GLI UNDER 35 ITALIANI STRANGOLATI DALLA CULTURA MAFIOSA
E’ uscito un nuovo studio statistico, l’ennesimo, che rivela come il 67% degli under 35 italiani, impropriamente definiti “giovani”, viva ancora in famiglia. Anzi, “preferisca” vivere in famiglia, per dirla con Repubblica.
Prima che gli attempati opinionisti delle TV e dei giornaloni si scatenino con la solita trafila di insulti – “choosy”, “bamboccioni”, “mammoni” – provo a batterli sul tempo mentre loro sono al ristorante a ordinare il bollito, partendo dalla mia esperienza personale di lavoratore italiano in partita IVA under 35.
Qualche anno fa, dopo il decennio passato a scrivere per il noto programma televisivo satirico, decido di investire i miei risparmi e di frequentare un corso di laurea in regia cinematografica a New York.
Durante il corso, insieme a un amico, scrivo il soggetto e la sceneggiatura di una web serie, che propongo a una casa di produzione italiana, che decide di produrre la puntata. Io e il mio amico non percepiamo nulla – cosa che lascia di stucco i miei compagni di corso in America (“Really? Is that legal?”) – ma almeno, una volta realizzata, la puntata ottiene un discreto successo tanto da suscitare l’attenzione di un importante dirigente di un network televisivo.
Costui mi telefona per esprimermi il suo interesse a produrre una prima stagione della serie. Con entusiasmo, metto il contatto il dirigente e la casa di produzione e attendo. Purtroppo la telefonata sperata non arriva.
Tuttavia mesi dopo, per caso, vengo a sapere che la casa di produzione ha, a mia insaputa, proposto al dirigente di affidare il progetto a un altro regista, una persona che, a loro dire, ha “la giusta esperienza per portarsela a casa”. Insomma: non conta che il progetto sia ideato, scritto e diretto dal sottoscritto e dal suo amico; non conta che la puntata abbia avuto successo e sia stata in grado di interessare il dirigente; e nemmeno conta che questo nuovo regista, degli elementi fondamentali della serie in oggetto non sappia assolutamente nulla (storie dei personaggi, archi, colpi di scena, tutto quell’armamentario narrativo su cui si basa una serie TV). L’unica cosa che conta e’ che questo tizio abbia dieci anni più’ del sottoscritto e del suo amico.
Passano gli anni.
Il sottoscritto ormai rientra per un pelo nella categoria “under 35”. Nel frattempo si e’ laureato, il suo cortometraggio di tesi ha vinto, in Messico, uno dei 50 festival più importanti al mondo ed e’ stato nominato finalista a Roma ai Nastri d’Argento 2016 (cosa che porta in dote – grazie ai bizantinismi burocratici italiani – lo status di “artista” le cui opere sono, secondo il Ministero, meritevoli di “interesse culturale”).
Per mesi lavoro all’adattamento italiano di una popolare serie TV newyorkese con al centro la marijuana (High Maintenance) che chiamo “Produzione Propria”. Dopo 4 mesi porto i risultati del mio lavoro (un trattamento del programma con forti elementi di originalita’ rispetto alla versione americana e tre sceneggiature originali) a un produttore italiano che, entusiasta, dice che cercherà un editore per produrre la serie.
Passa un anno, un anno che di fatto trascorro nei pressi del telefono, sperando che prima o poi arrivi la chiamata giusta. E la chiamata finalmente arriva: un network vuole produrre la puntata pilota. Ancora una volta, di soldi non si parla (e i miei compagni di corso americani, più giovani di me e gia’ lanciati verso carriere che li hanno spinti fino a Games of Thrones insistono nel Really? Is that legal?) ma a me non frega nulla, l’occasione e’ troppo importante.
Si arriva cosi’ a una riunione tra vari soggetti dove scopro che nessuno dei presenti ha letto quanto da me scritto, neppure l’originale produttore cui parlai per primo della serie americana (e che, prima che glielo dicessi io, di quella serie non aveva mai sentito parlare). Eppure, sono tutti concordi su un punto: bisogna trovare qualcuno che si occupi di scrivere la serie, qualcuno “con la giusta esperienza”.
Le successive settimane le trascorro cercando di capire cosa non vada nel materiale da me prodotto, offrendomi di correggerlo, senza ottenere risposta. Poi ricevo una telefona dove mi dicono che “la persona” con “la giusta esperienza” e’ stata trovata: ha, manco a dirlo, dieci anni più’ di me, e sta lavorando a una puntata pilota che ribalta completamente la mia visione della serie. Chiedo in cosa tale visioni non funzioni, e di nuovo nessuno mi risponde.
Telefono allora al produttore, dicendo che sono ovviamente disposto ad accettare la presenza di altri professionisti (che di tutto questo, e’ bene specificare, non sanno nulla) e a confrontarmi, ma che io voglio lavorare al mio programma, a Produzione Propria, il risultato del mio lavoro per il quale tutta questa macchina si e’ messa in moto, e non a qualcosa che con Produzione Propria ha pochissimo o nulla a che fare.
La risposta e’, testuale, “Ma tu chi cazzo sei?”
Ed e’ proprio questa la chiave di volta che mi illumina.
Ma tu chi cazzo sei e’ esattamente quello che la stragrande maggioranza di chi ha meno di 35 anni e sta leggendo in questo momento si e’ sentita dire ogni qual volta abbia provato a costruire o ad affermare la propria professionalità in Italia, qualunque fosse l’ambito professionale di riferimento.
A volte ma tu chi cazzo sei e’ gridato addosso, come accaduto al sottoscritto; altre volte e’ un sottotesto, un sottinteso, un qualcosa che nemmeno vale la pena dire, tanto e’ ovvio e pacifico a tutti.
Non conta quanti titoli di studio hai appesi in camera, e non conta quale sia la tua esperienza e quanti allori e risultati puoi avere conseguito. E non serve nemmeno investire nella formazione, studiare per restare aggiornati, accumulare quante piu’ conoscenze possibili. Perche’ a nessuno importa nulla. Perche’ quel ma tu chi cazzo sei viene da lontano, da lontanissimo, fa parte delle radici stesse su cui poggia il nostro Paese.
La mafia e’ un’organizzazione criminale pericolosa, di cui fanno parte in pochi ma i cui terribili effetti riguardano molti. La cultura mafiosa, invece, e’ il collante che tiene insieme il Paese da Nord a Sud, tutti vi partecipano e tutti ne subiscono gli altrettanto terribili effetti. E’ quell’atteggiamento mentale, quell’italico riflesso pavloviano per cui se devo affidare un lavoro a qualcuno in grado di produrre un valore economico, io non mi affido al mercato e ai criteri di professionalità, ma mi affido – completamente al buio – all’amico o all’amico dell’amico o all’amico dell’amico dell’amico in modo che costui, in seguito, sara’ in debito con me e mi dovrà restituire il favore.
E se tu hai meno di 35 anni diventi immediatamente il principale bersaglio di tale cultura, perché’ la tua influenza nella società e’ per forza di cose limitata – e a nessuno conviene essere in credito con te per un favore da chiederti poi. A patto che, ovviamente, tu non sia “figlio di…” qualcuno: allora certo, le cose cambiano, perché quel favore non sarai tu a doverlo restituire ma la tua famiglia.
Purtroppo, dentro quel 67% di under 35 costretti a vivere con i genitori, di Facchinetti e compagnia cantante (male) non ce n’e’ nemmeno uno. Ci sono invece centinaia di migliaia di uomini e di donne – che solo in Italia subiscono l’onta ulteriore di essere chiamati, a 35 anni, “ragazzi” – che non hanno spazio per diventare “professionisti” non per demeriti ma perché’ non sono in grado di fare favori a nessuno.
La mia generazione ha perso cantava Giorgio Gaber. La mia generazione, invece, non ha ne’ vinto, ne’ perso: semplicemente non ha mai giocato, perché quella di prima si e’ portata via il pallone.
La mafia, con intimidazioni e bombe, come una piovra condiziona la vita delle persone; la cultura mafiosa invece e’ un vecchio pitone pasciuto che ti si stringe attorno al collo. Se provi a muoverti, ti strangola. Cosi’ altro non puoi fare che restare fermo anno dopo anno, sveglio la notte a chiederti quando arrivera’ quell’opportunita’ che non arriva. E nel frattempo sei obbligato a scelte sempre più di retroguardia, a sognare come massimo obiettivo la sopravvivenza, mentre le generazioni precedenti ti lanciano quei pochi spicci come fossero ossa lanciate ai cani alla fine di un banchetto, pretendendo in cambio un ossequioso bacio della pantofola.
E in ultimo ti devi sopportare una selva di mummie sopravvissute al ’68 che sui media o nelle Istituzioni se sei uomo ti chiamano mammone o bamboccione, se sei donna ti sventolano una clessidra sotto il naso, chiedendoti perché non ti sei ancora decisa a fare un figlio, quando tu e’ gia’ tanto se sai cosa farai da qui a tre mesi, vista la natura del tuo contratto di lavoro.
Così, mentre il Governo preannuncia nuove elargizioni ai pensionati, mentre tra i primi Paesi fornitori di immigrati all’Australia c’e’ l’Italia, mentre il tempo passa e ne abbiamo ormai quasi 40, ci si chiede se non sia finalmente giunto il momento di strappargli dai piedi la pantofola, tirargliela in faccia e cominciare finalmente a ribellarci.
P.S. Grazie a chi ha votato e votera’ l’articolo “La vignetta di Charlie Hebdo spiegata a mia madre” ai Macchianera awards 2016.
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