Cooperazione

Cooperare Includere Innovare. Le regole del gioco del Platform Cooperativism

18 Ottobre 2017

Monica Bernardi per MilanoIN

Esiste una via etica alla sharing economy?

Sharing is caring: nel 2011 il Time annoverava la sharing economy tra le 10 idee capaci di cambiare il mondo e nel 2013 il The Guardian ne parlava come un modo completamente nuovo di vivere. Negli anni a seguire la sharing economy si è affermata nel dibattito internazionale come un modello economico nuovo e complementare a quello esistente; con il potenziale, secondo alcuni autori (come Adam Parson), di ridurre le inuguaglianze, promuovere socialità e solidarietà, ma anche rendere più etici consumo e produzione, migliorare l’ambiente e il benessere, promuovere i beni comuni e in qualche modo sovvertire il vigente modello competitivo e iperconsumistico.

Tuttavia, nella sua evoluzione, quel modello innovativo si è trasformato in quello che Trebor Scholz, attivista e docente di Culture & Media alla New School di New York, definisce un’altra emanazione del capitalismo. Innovare x Includere lo ha incontrato per discuterne, il 28 settembre all’Urban Center di Milano, in occasione dell’evento ‘Cooperare Includere Innovare. Le regole del gioco del platform cooperativism’, promosso in collaborazione con Fondazione Ivano Barberini e Comune di Milano. Pare infatti che la sharing economy sia diventata una sorta di “liberismo sotto steroidi”, per dirla con le parole del sociologo bielorusso Evgeny Morozov: si appropria del linguaggio della solidarietà e della condivisione nascondendo in realtà le stesse logiche dei mercati neoliberisti. Tilman Baumgärtel la considera una sorta di un’“economia ombra”, lontana dai valori primordiali che l’hanno generata e che va a riprodurre vecchi schemi di deprivazione per alcune classi sociali riducendo ancora di più i servizi di welfare e, come sostiene Michel Bauwens, creando nuove corporation estrattive. Secondo McKenzie Wark “questo non è capitalismo ma qualcosa di peggio”. La “prosecuzione del Reganismo con altri mezzi” afferma Trebor Scholz, che riconduce l’economia della condivisione ad un’economia di servizi on-demand volta a monetizzare servizi in precedenza privati, determinando una “finanziarizzazione del quotidiano 3.0”. Douglas Rushkoff, sostiene che “invece di mettere in piedi attività realmente distributive, stiamo mettendo sotto steroidi l’economia industriale, accentuando così il divario economico e portando all’estremo le forme di sfruttamento”. I buoni propositi della sharing economy hanno finito con il trasformarsi in quello che Sascha Lobo e Martin Kenney definiscono capitalismo di piattaforma in cui i vantaggi per consumatori, proprietari e azionisti sono evidenti ma lo sono meno quelli per i lavoratori vulnerabili e quelli a lungo termine per i consumatori. Il platform capitalism, che si è affermato al grido di less is more, è di fatto risultato inefficiente nel dare ascolto ai bisogni della collettività e secondo Scholz quello che “all’inizio sembrava innovazione ha in fin dei conti alzato il volume della disparità di reddito”.

Non c’è speranza dunque per la sharing economy? In realtà c’è chi suggerisce (come McLaren ed Agyeman) di non concentrarsi solo sugli aspetti profit e commerciali del fenomeno, ma di esplorare la dimensione culturale e politica intrinseca alla condivisione stessa perché i veri agenti di cambiamento sono le persone, natural socio-cultural sharersC’è un potenziale indiscusso nella condivisione che secondo alcuni esperti trova la sua miglior forma di espressione in formule cooperativistiche basate sul mutualismo. Neal Gorenflo ad esempio ritiene che esista un’importante alternativa etica all’attuale sharing economy dominante, estrattiva e commerciale (le cosiddette Death Star come Uber ed Airbnb), ossia una forma che pone il controllo e la proprietà dei servizi digitali direttamente nelle mani dei suoi utenti. Lisa Gansky, autrice di “The Mesh”, sottolinea che l’economia collaborativa ha bisogno di iniziare a condividere più valore con le persone che creano questo valore: “è giunto il momento per i driver, gli host e i membri delle community di ottenere un pezzetto delle aziende a cui contribuiscono e che non esisterebbero senza di loro”. Si tratta di quello che Trebor Scholz definisce platform cooperativism: un cooperativismo digitale di piattaforma che consente di costruire un’economia digitale democratica e mutualistica di proprietà degli stessi utenti. Scholz suggerisce di “clonare” l’impianto tecnologico delle piattaforme online e di metterlo al servizio di un modello cooperativistico basato sulla solidarietà tra lavoratori, proprietari, comunità e città. L’unico modo per arrivarci è ridisegnare l’infrastruttura insieme ponendo al centro la democrazia, perché “non è possibile opporsi alla diseguaglianza economica facendo affidamento sulla benevolenza dei proprietari”, occorre portare la tradizione delle imprese cooperative nell’economia online, unire il peer-to-peer e le cooperative con i mercati online, insistendo sulla proprietà comunitaria e sulla governance democratica.

Intorno a questi temi si è sviluppato l’incontro ‘Cooperare Includere Innovare. Le regole del gioco del platform cooperativism’. Scholz nell’introduzione ha parlato del platform cooperativism come di un nascente movimento sociale, economico e politico frutto di un periodo storico di profonda trasformazione, di rinascita per usare le sue parole. Un momento di trasformazione che è stato sicuramente incentivato dalla stessa sharing economy e che ha portato allo Zebras movement (un movimento che crede nella necessità di sviluppare modelli di business alternativi, basati sulla democrazia e su poteri e risorse condivisi), al pro-commons movement, alla diffusione delle piattaforme, ecc. Oggi non si avverte solo e semplicemente il bisogno di resistenza alla crisi economica e relazionale: una rinnovata intelligenza collettiva in azione chiede e propone alternative positive, che Scholz identifica in prima battuta nella “piattaforma cooperativa”. Questo modello, a suo avviso, consente infatti di ridisegnare i modelli di proprietà che passano attraverso Internet e di ovviare alle problematiche connesse con le piattaforme capitaliste, cambiando il concetto di proprietà stessa, stabilendo una governance democratica e rinvigorendo la solidarietà.

Scholz ha portato ad esempio alcune esperienze americane interessanti:

  • come UP&GO, una piattaforma cooperativa di New York che raccoglie i lavoratori/soci di tre cooperative newyorkesi specializzate in servizi professionali a domicilio: EcoMundo, Brightly Cleaning Cooperative e Cooperative Cleaning of New York. UP&GO fornisce loro la piattaforma e quindi lo strumento per essere competitive nei confronti di compagnie tecnologiche come Handy e Taskrabbit che stanno trasformando il mercato dell’industria di pulizie, e consente ai soci lavoratori (tendenzialmente donne a basso reddito) di trattenere il 95% del profitto. La peculiarità è che si tratta di una collaborazione tra organizzazioni locali (Center for Family Life in Sunset Park), sviluppatori tecnologici (CoLab Cooperative), fondazioni filantropiche (Robin Hood Foundation), banche (Barkleys) e cooperative di lavoratori (New York City Worker Cooperatives). Occorre sottolineare che New York negli ultimi anni ha iniziato ad insistere maggiormente sulla promozione e lo sviluppo di servizi per i cittadini a basso reddito, non solo attraverso incentivi e regolamenti, ma favorendo la creazione di un ecosistema a maglie larghe che promuove l’innovazione locale (si veda ad esempio il recente Service Design Studio and Toolkit che ha come scopo quello di aiutare le agenzie newyorkesi a migliorare i servizi per i residenti a basso reddito e che rimanda alla filosofia delle tre P proposta dalla stessa associazione IN: Pensiero, Pratiche, Politiche).
  • Altro esempio presentato è STOCKSY, una cooperativa di artisti di Victoria che vende stock di fotografie e si basa sull’idea che gli artisti che contribuiscono a presentare foto sul sito ricevano una retribuzione equa e possano così avere carriere sostenibili: la cooperativa è gestita dagli stessi fotografi che trattengono il 50% dei profitti generati dalla vendita delle loro foto e ricevono a fine anno un dividendo dei guadagni.
  • Infine Scholz ha presentato MIDATA.COOP, un network di cooperative (la prima nata in Svizzera nel 2015) che fornisce una piattaforma open source di archiviazione sicura dei dati. I cittadini possono archiviare, accedere, controllare, gestire e condividere i propri dati personali, in particolare quelli legati alla salute (documenti ospedalieri, dati prodotti dai fitness trackers e altri dati esperenziali), conservandoli in un cloud locale e diventando così protagonisti attivi della ricerca medica. Infatti l’utente oltre a tracciare i propri progressi può condividere le informazioni con medici, familiari o studi clinici. Non c’è una ricompensa economica per incoraggiare le persone a condividere i propri dati: la principale motivazione è supportare la ricerca medica. Il modello è cooperativo pertanto eventuali profitti sono reinvestiti in base alle decisioni dei membri o forniti come dividendi agli azionisti. (Per conoscere altre esperienze e per approfondimenti: platform.coop).

Anche Paolo Venturi (direttore di AICCON), aprendo l’incontro ha sottolineato quanto il momento attuale sia di profonda trasformazione, non solo nel contesto americano, di cui si fa portavoce Scholz, ma anche in Italia, dove si percepisce un fermento che dal basso si sta strutturando, “una netta dimensione emergente che si esprime in modo diverso”. L’Italia per altro ha una lunga e consolidata tradizione di mutualismo e forme cooperative. La cooperazione nella sua storia è stata la modalità economica adeguata con cui produrre valore aggiunto e oggi il tema è come crescere e come distribuire valore. Secondo Venturi occorre una fase istituente in cui questa dimensione emergente possa trovare modo e spazio per creare valore sociale ed economico; occorre infrastrutturare nuove istituzioni in quanto è il cambiamento istituzionale ad influenzare l’evoluzione di una società nel tempo ed è la chiave di volta per comprendere la storia stessa. La domanda da porsi è: come può cambiare la cooperazione per diventare uno strumento realmente utile alle persone per produrre beni comuni?

Durante l’incontro sono state presentate alcune esperienze cooperative innovative tutte italiane:

  • Andrea Bertolazzi ha raccontato la storia di GNUCOOP, una cooperativa di professionisti IT e di sviluppo che fornisce un supporto informatico in particolare alle ONG e alle istituzioni senza scopo di lucro.
  • Chiara Faini ha parlato di SMart (Società Mutualistica per Artisti) nata in Belgio nel 1998 e nel 2014 approdata anche in Italia con lo scopo di tutelare, semplificare e far riconoscere il lavoro degli artisti e dei creativi fornendo un quadro legale che facilita lo sviluppo di progetti creativi (gli artisti condividono la stessa partita IVA, lo stesso legale e commercialista e SMart preleva l’8,5% del fatturato dei suoi soci per coprire i propri costi di gestione).
  • Sara Tavaglini ha raccontato l’esperienza di DAR=CASA, una cooperativa milanese che si occupa di social housing: da un lato si concentra su opere di riqualificazione del patrimonio immobiliare pubblico e dall’altro mette in atto una serie di interventi per sostenere l’accesso delle fasce più deboli e permetterne l’integrazione.
  • Federica Verona ha presentato ZOIA, un progetto di ‘abitare sociale cooperativo’ a Milano per una nuova architettura delle relazioni: nato dalla collaborazione tra le cooperative Edificatrice Ferruccio Degradi e Solidarnosc del Consorzio Cooperative Lavoratori, ha portato alla realizzazione di 90 alloggi. Peculiarità del progetto è il piano di accompagnamento sociale che ha consentito di avviare una co-progettazione tra i futuri residenti per la realizzazione dei servizi al condominio e che ha dato vita ad un blog e ad una cooperativa sociale di condominio per gestirne i servizi (NoiCoop).
  • Chiude la carrellata di esperienze Davide Zanoni, di È NOSTRA, un fornitore elettrico cooperativo, nato con lo scopo di creare un’impresa cooperativa a finalità non lucrativa per gestire un bene comune: le energie rinnovabili e quindi vendere ai propri soci solo elettricità rinnovabile proveniente da impianti fotovoltaici, eolici e idroelettrici con garanzia d’origine.

L’innovazione fa da filo conduttore a queste esperienze, un’innovazione aperta nel segno dell’inclusione. Come ha ricordato Renato Galliano, Direttore del Settore Innovazione Economica, Smart city e Università del Comune di Milano, ci sono elementi chiave che contraddistinguono simili esperienze innovative e che trovano il proprio fondamento nella tradizione cooperativista: il concetto della relazione tra pari (intrinseco nelle cooperative), il concetto di rete (praticato da sempre nelle cooperative), il concetto di valore (in tutta la catena), il tema dell’ibrido tra economia e sociale e l’intreccio tra profit e no profit con l’emergere di soluzioni che pur avendo un profilo profit hanno una mission sociale.

L’incontro si è concluso con una tavola rotonda moderata da Mattia Granata (Fondazione Ivano Barberini), il quale ha ricordato che l’8,5% del PIL italiano è prodotto dalla cooperazione e che il nostro paese, come già scritto qui, vanta “un secolo e mezzo di esperienza in materia di autorganizzazione economica e condivisione sociale”  da cui partire per elaborare nuove strategie e soluzioni “che vedano nell’innovazione non una mera occasione di lucro, ma di miglioramento della vita di persone e comunità, presenti e future”. Emanuele Polizzi, ricercatore sociale e segretario di Innovare x Includere, ha sottolineato ulteriormente l’importanza di partire proprio dalle pratiche più innovative per arrivare a produrre un’innovazione anche nelle politiche; e Andrea Rapisardi, presidente di Lama – Development and Cooperation Agency – ha messo in campo il tema della valorizzazione anche delle dimensioni più intangibili di un’organizzazione. Hanno chiuso la tavola rotonda gli interventi dell’Assessore alle Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane, Cristina Tajani e della docente di sociologia economica, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Ivana Pais, entrambe socie fondatrici dell’associazione Innovare x Includere. La prima ha posto l’accento sulla resilienza del territorio, un tessuto socio-economico quello milanese che sta dimostrando di avere la capacità di improntare nuove risposte che parlano la lingua dell’impatto sociale (e non a caso di impatto sociale si occuperà l’associazione Innovare x Includere in un prossimo incontro). La seconda ha chiuso il cerchio riprendendo il tema del cambiamento e interrogandosi su come oggi si possa ripensare il rapporto tra piattaforme e cooperative, alla luce della lunga tradizione di cooperativismo e mutualismo che caratterizza il nostro paese e su come, in un processo di scomposizione e ricomposizione, proporre soluzioni non alternative, né blended, ma del tutto nuove, sia per le une che per le altre.

Una sfida, quella di cui si è discusso, non impossibile, viste le esperienze presentate. E che pone l’accento proprio su quel lato etico della sharing economy che sembrava perduto e che si estrinseca nella capacità o meno di sviluppare mutualisticamente le piattaforme in un processo di scambio culturale e conoscenza condivisa, in cui cooperative e piattaforme si aprono alla contaminazione reciproca.

 

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