Città

Regole e modelli di business: la sharing economy prova a diventare grande

23 Novembre 2014

Una mattina qualsiasi Francesca si alza, fa colazione e accende il computer. Nello stanzino ha un letto che non usa più: lo fotografa e inserisce l’annuncio sul gruppo Facebook “Te lo regalo se vieni a prenderlo”. In meno di un’ora le scrivono in quattro e lei lo assegna al primo che ha risposto, Davide, studente universitario: passerà a ritirarlo il giorno dopo. Nello stesso momento (o qualche ora più tardi) Luca trova su Fred il libro di poesie di Alda Merini che cercava, ce l’ha Maria nella sua biblioteca privata. La contatta e si danno appuntamento per caffè e consegna. Nel frigo di Giorgia, invece, c’è una lasagna fatta il giorno prima. Stasera non la mangerà perché va a cena fuori. Due le alternative: il secchio dell’immondizia o ScambiaCibo. Sceglie la seconda e carica la pietanza sul suo profilo in attesa che qualcuno se la accaparri.

Sono tre esempi che raccontano una rivoluzione in atto. In diversi Paesi e anche in Italia. La parola chiave è “condivisione”: di cose, spazi, competenze,  denaro, cibo, spettacoli e molto altro. Si chiama Sharing Economy, economia collaborativa o della condivisione e Forbes a inizio anno l’ha definita «uno dei trend più promettenti del 2014». Per ora dentro ci si trova un po’ di tutto: «Nessuna ansia di racchiudere il fenomeno in una definizione univoca  che poi non terrebbe conto delle varie istanze che stanno emergendo – spiega a Gli Stati Generali Ivana Pais, docente all’università Cattolica di Milano – In questa fase è bene che ci siano proposte e accezioni diverse perché danno conto della varietà dei fenomeni». 138 le piattaforme in Italia secondo i dati dell’ultima ricerca che verrà presentata a Sharitaly il primo dicembre a Roma. Un fenomeno che coinvolge soprattutto le città e che interessa maggiormente i settori del Crowfunding (finanziamento di progetti dal basso), beni al consumo, baratto, trasporti e accoglienza. Più attivi sono il nord e le isole (si è tanto parlato di Sardex, la moneta virtuale che permette alle aziende del circuito di finanziarsi reciprocamente) ma non mancano attività notevoli al sud. La ricetta di Ivana Pais è «tenere occhi aperti e maglie larghe», così si evita di lasciare fuori esperimenti interessanti. E ce ne sono tantissimi, oltre a i più noti Airbnb (che permette di affittare stanze e appartamenti per brevi periodi), e Blablacar (si trova o si offre un passaggio in auto), importati da fuori ma che in Italia vengono sempre più utilizzati, e naturalmente oltre alla celeberrima Uber che, per la verità, con la sharing economy strettamente intesa va allontanandosi sempre di più.

Tra gli esempi di casa nostra c’è Gnammo che permette di andare a mangiare a casa di perfetti sconosciuti. Mentre scriviamo, sull’home page del sito campeggiano varie offerte tra cui la cena vegana di Alle Dogali a Rovato in provincia di Brescia con buffet senza limiti, quella francese di Lucia a Genova e sapori spagnoli da Cinzia Mistretta a Palermo. I prezzi variano dalle 10 alle 50 euro a seconda di menù e location. Ha visto la luce nel 2012 grazie a un’idea di Gian Luca Ranno (gli altri soci sono Cristiano Rigon e Walter Dabbicco), oggi conta 30mila utenti sparsi nelle principali città italiane e a dicembre sbarcherà ad Amsterdam e a seguire nel 2015 a Londra e Parigi.

sharing gnammo

 

Sempre sul cibo c’è Bringfood, nata nel 2011 e finanziata dalla Fondazione Bruno Kessler che si occupa di innovazione sociale nel mondo. L’intento è di mettere in connessione chi ha cibo in eccesso e chi ne è privo o fa difficoltà a reperirlo. «Per ora lavoriamo con supermercati e ristoranti– racconta a Gli Stati Generali Pietro Molini – e destiniamo poi gli alimenti ad enti caritatevoli». L’ultima donazione è di 24 tonnellate di arance raccolte il 21 novembre e smistate alle varie associazioni. Grande attenzione alla sicurezza: «Cerchiamo di implementare le linee guida del banco alimentare, quindi non accettiamo cibi scaduti e quelli cotti non devono esserlo da più di 24 ore». Presto si arricchirà di nuove funzionalità, come lo scambio tra privati. Che è quello che fa già S-cambiaCibo, online da settembre di quest’anno, ma che ha già 400 utenti, molti dei quali a Bologna, città in cui è nata la piattaforma. «L’idea si è sviluppata all’interno del mio studio nel coworking Kilowatt a Bologna – racconta Ilaria Venturelli – sono ingegnera e mi occupo di architettura e stavamo partecipando a un concorso per un ristorante in Russia».

Da lì è partito l’interesse per il food sharing. «Ci ha colpito scoprire che il cibo, in quanto mezzo relazionale per eccellenza, veniva utilizzato dai popoli che migravano per farsi conoscere dalle comunità ospitanti, oltre ai dati sullo spreco alimentare». Secondo una ricerca dell’Adoc (Associazione difesa orientamento consumatori)  ogni famiglia, in Italia, getta nel cassonetto in un anno circa 480 euro. «E non è solo qualcosa che è costato in termini economici, ma anche di consumo di suolo, energia, acqua, per non parlare dello smaltimento dei rifiuti», aggiunge Venturelli. La piattaforma è ancora giovane e in versione beta,  a breve, però, verranno aggiunte nuove funzioni, a cominciare da un sistema di valutazione dei piatti donati. Dal cibo si passa ai libri. E troviamo Fred  (Free reading) il servizio che permette di condividere le biblioteche private.

Lo ha pensato Giacomo Sbalchiero, è attivo da maggio 2014, ospita 5000 utenti e ha raggiunto 68 Paesi. «Il sito ora è in inglese – spiega il fondatore – ma presto faremo versioni in italiano, francese e portoghese. Il nostro obiettivo è da un lato incentivare la lettura, dall’altro facilitare l’incontro tra persone, non solo virtuale, ma soprattutto faccia a faccia, infatti l’interazione sul sito è ridotta al minimo». Funziona così: dopo avere creato un profilo si caricano i propri titoli che da quel momento diventano richiedibili da altri; l’utente, allo stesso tempo, può contattare la persona che ha un libro che lo interessa e darsi appuntamento per lo scambio.

Tutte queste esperienze, e molte altre che per ragioni di spazio non riusciamo a raccontare, ma che trovate su www.collaboriamo.org, trovano posto nel grande calderone della Sharing Economy, dove convivono con realtà come Airbnb. Nel caso specifico della società statunitense, ormai affermatissima anche da noi con 89mila alloggi dati in locazione, secondo i dati forniti a Gli Stati Generali, il confine con la “rental economy” diventa molto labile. Gli aspetti di collaborazione e condivisione passano in secondo piano anche se non scompaiono del tutto. «Ho intervistato una persona – racconta ancora agli Stati Generali la professoressa Pais – che ha affittato casa sua con Airbnb. Non ha mai incontrato chi è andato a vivere da lui, ma si è comunque stabilito un legame: lui ha scritto un biglietto in cui ha parlato agli ospiti di sé e del suo appartamento, ha lasciato vino e cioccolatini e quando loro sono andati via lo hanno ringraziato e in una lettera gli hanno raccontato la loro vacanza. È diverso dall’andare in un hotel».

sharing airbnb

Qualche distinzione però va fatta. «In Airbnb – riflette Marta Mainieri autrice del libro “Collaboriamo!” e fondatrice dell’omonimo sito web – confluiscono sia bed and breakfast o persone che acquistano una casa proprio per metterla in affitto sulla piattaforma, che privati che partono per un periodo e danno in locazione il proprio appartamento. In quest’ultimo caso viene sfruttato un bene che altrimenti non verrebbe utilizzato, negli altri due si tratta di solo affitto che avviene tramite una piattaforma nuova». Non esistono però secondo Marta Mainieri una “buona” e una “cattiva” sharing economy. «Il profitto non può essere demonizzato, un modello di business è necessario, altrimenti queste start-up non vanno avanti. Un esempio è couch surfing (servizio gratuito che mette in connessione chi ha a disposizione un posto letto nella propria casa con chi cerca un alloggio ndr) oggi in crisi». Infatti molte delle realtà già menzionate lavorano per costruire forme di sostentamento. S-cambiacibo, dopo l’avvio grazie a un finanziamento di Coop Adriatica, prevede in futuro di chiedere un piccolo contributo agli utenti. Fred, partita in autofinanziamento, monetizza la parte rivolta alle aziende a cui «proponiamo una versione dedicata della piattaforma – spiega Sbalchiero – uno strumento per gestire biblioteche interne, o per crearne di nuove». Altra  linfa vitale potrebbero darla  in futuro i “Fred point”: bar, librerie, negozi dove gli utenti possono incontrarsi. Per entrare nel circuito la quota annuale è di 95 euro, il servizio invece è gratuito «e lo resterà sempre» per gli utenti che non verranno mai trattati come «oggetto commerciale o di speculazione ». Gnammo avvierà a breve una trattenuta del 10% sul contributo versato dai commensali e ha accordi con alcuni brand (Barilla e Ferrarelle) con cui organizzano eventi pubblicizzati sul sito: si mangia gratis e cucinano i cuochi di Gnammo, quelli più apprezzati, secondo il sistema di valutazione. «I brand – fa notare Ranno – hanno gradito il tipo di comunicazione che riusciamo a creare, mentre per gli chef rappresenta un’opportunità di lavoro». Scambiatreno (che permette di vendere o scambiare biglietti non rimborsabili) ha una partnership con Blablacar e prevede di attivare altri banner a breve sul sito. Bringfood è impegnata a creare una cordata di associazioni che sostengano il progetto.

Non si può fare a meno del vil denaro, quindi, anche se esistono modi più o meno leciti per trovarne. Quelle che di certo vanno condannate sono le degenerazioni che possono annidarsi nella Sharing economy, proprio perché giovane: concorrenza sleale ed evasione in primis. Illegalità che preoccupano gli operatori tradizionali di alcuni settori. Come Federalberghi che dice di non temere un mercato più competitivo, ma chiede «che tutti siano tenuti ad offrire le medesime garanzie, ai turisti, ai lavoratori, alla collettività». L’associazione sottolinea che «L’autorizzazione ad accogliere turisti in contesti atipici (case private, aziende agricole, famiglie di pescatori, etc.) è solitamente motivata con l’esigenza di integrare il reddito di soggetti economicamente deboli, che dovrebbero poter svolgere le relative attività in via occasionale e comunque accessoria rispetto all’attività principale».

Denuncia però che «il fenomeno è proliferato in modo indiscriminato, allontanandosi dall’originario principio ispiratore e dando luogo a fenomeni di concorrenza sleale, che danneggiano tanto le imprese turistiche tradizionali quanto coloro che gestiscono in modo corretto le nuove forme di accoglienza». Anche i tassisti hanno protestato e scioperato a maggio e giugno scorso protestando contro Uber «contro l’abusivismo, per la legalità». Se quindi è vero, come fa notare Roberto Pasca Di Magliano professore dell’università La Sapienza di Roma, che «chi lavora in un determinato settore pensa di avere dei privilegi e vuole tenerseli stretti», è innegabile che realtà come Airbnb e Uber erodono fette di mercato. Questo però non toglie che stimolino innovazione, infatti i tassisti cominciano a dotarsi di app «Airbnb – riflette Ivana Pais – porta turismo in aree delle città dove non ci sono servizi alberghieri, il che produce un indotto su bar, ristoranti e commercio locale rivitalizzando aree altrimenti sofferenti».

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Dalla difficoltà per alcune start-up di restare a galla, alle proteste anti Uber e Airbnb emerge sempre più una necessità di regolamentare. E non è più rinviabile un serio interessamento della politica. Un’occasione importante sarà Sharitaly che quest’anno, non a caso, si svolgerà a Roma, a Montecitorio. Il titolo, che non lascia spazio a fraintendimenti, è “Regolare senza soffocare”.  «Quello a cui miriamo – puntualizza Marta Mainieri, organizzatrice dell’evento con “Collaboriamo!” – è un regolamento che vada a rallentare le eventuali distorsioni ma senza soffocarle, perché portano benefici economici, sociali e ambientali». Amsterdam ha messo già dei paletti, limitando ad esempio l’affitto tramite Airnbnb a non più di due mesi l’anno per ciascun utente. «Porre dei vincoli in termini di tempo e di utilizzo di questi strumenti per distinguere una pratica amatoriale da una professionale è una formula senz’altro ragionevole», commenta la professoressa Pais.

Un primo passo, a Novembre, lo ha fatto il Comune di Milano, molto attivo sia nel campo del car-sharing che del bike-sharing, promuovendo un confronto aperto e poi la stesura di un documento di indirizzo per promuovere e regolamentare la sharing economy.  Al tavolo inaugurale sono stati invitati tutti gli attori della sharing economy, ma non Uber. Una delibera aperta ai contributi di cittadini, start-up, operatori del settore per «definire i criteri con cui si definisce la sharing economy – si legge sul sito “Collaboriamo!” – e quindi i servizi che ne fanno parte, per poter permettere al Comune di “certificare” le diverse piattaforme, cosa che consentirebbe di dare credibilità all’intero settore. Importante anche riuscire ad arrivare ad un piano operativo capace di dare forza a questi servizi e ad accompagnarli nella crescita». Il capoluogo lombardo si è già dato da fare creando Sharexpo, un percorso partito all’inizio del 2014, per «individuare proposte e iniziative per la sperimentazione della sharing economy durante Expo 2015». Altri amministratori locali si stanno interessando. «Bologna ha messo in piedi un crowdfunding per rifare il portico di San Luca – racconta Mainieri – Campi Bisenzi sta cercando di capire come inserire i servizi collaborativi all’interno dell’amministrazione, Anci Toscana ha promosso il servizio di car pooling (condivisione di auto) per chi vive nella regione». Sul sito di Roma Capitale c’è un articolo sul Car Pooling 2.0 che invita a registrarsi al portale del Comune. Una volta fatta l’iscrizione, però, nel menù principale la voce “Car pooling” non c’è. Il call center di Muoversiaroma non dà spiegazioni, ma dall’assessorato ai Trasporti confermano che il servizio è attivo.

L’interesse della politica va di pari passo con l’aumento dell’utenza. Gli ultimi dati parlano del 13% di fruitori in Italia, ma a Sharitaly verrà presentata una nuova ricerca. «Mi aspetto una percentuale molto più alta», dice Mainieri. Negli Stati Uniti è al 52%, Gran Bretagna 64% e Francia 50%. Secondo uno studio dell’Ipsos pubblicato a luglio scorso è emerso che in Italia il 75% degli intervistati conosce la Sharing economy e il 31% è interessato a utilizzarla, mentre l’11% ne fa già uso.  Quello che penalizza il nostro paese è un problema di digital divide: «Da noi si fa poco uso della tecnologia – aggiunge Mainieri – anche le piattaforme di e-commerce vengono sfruttate meno rispetto ad altri paesi».  Prendendo in prestito le parole di Ivana Pais quindi «In Italia la Sharing economy ha preso piede nonostante l’analfabetismo tecnologico». E crescerà sempre di più se, come sostiene da tempo Jeremy Rifkin, stiamo vivendo l’inizio di un cambio di paradigma economico «dopo quelli del capitalismo e del socialismo nel XIX° secolo».

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