Cibo

L’Oms obbedisce ai Vegan chic, ma l’Europa moderna è fondata sul maiale

28 Ottobre 2015

All’Oms niente di nuovo: non si deve mangiare troppa carne rossa, sai che scoperta. Un qualsiasi medico di famiglia direbbe altrettanto. Non occorreva certo scomodare cotanti capoccioni. Ma uno sguardo all’indietro di aiuta a capire quanto spesso sia stata la moda più che la sanità a dettare le norme alimentari. E l’oggi non fa eccezione.

Prima di tutto, cominciamo con l’essere per sempre grati ai maiali: ci hanno permesso di transitare al medioevo al rinascimento. Al tempo la dieta era noiosamente composta da porco, porco e ancora porco. Che si fosse ricchi o poveri non aveva importanza, variava la quantità, ma il tipo di carne era sempre quella: suina. I boschi, tanto per dire, si misuravano in base ai porci che potevano contenere. Si trattava di animali più piccoli degli attuali – pesanti da un terzo alla metà di quelli dei nostri giorni, arrivati nell’Ottocento dall’Inghilterra – ma quando si ammazzava il maiale c’era pur sempre l’esigenza di conservarne le carni. E allora via con gli insaccati, carne mescolata a sale, pepe e quant’altro permettesse di allungarne la conservazione. Il prosciutto, già conosciuto dai romani che pur non amavano i maiali (sono stati i longobardi a introdurne l’allevamento brado), era roba riservata ai ricchi. In ogni caso il prosciutto, sia ben chiaro, non è carne lavorata, bensì stagionata. Il principale ingrediente che permette di trasformare le cosce di maiale fresche i prosciutti crudi è costituito dall’aria.

Certo è difficile stabilire se una dieta così monotona base di carne di maiale lavorata facesse venire il cancro. All’epoca non si faceva in tempo a morire di tumore, si schiattava prima di qualsiasi altra cosa: pugnale, malattie, denutrizione, epidemie. La peste nera del 1348 stermina da un terzo alla metà della popolazione europea, il vaiolo fa stragi (a proposito: che ne pensano gli antivaccinisti della totale scomparsa del vaiolo grazie alle vaccinazioni di massa?). Oggi ingurgitiamo cose un tempo impensabili: per i romani i burgundi erano talmente barbari da mangiare carne di cavallo. E di altre non ne vogliamo più sapere: il cuoco Chichibio del “Decameron” di Boccaccio, ruba una coscia di gru. Da un bel po’ non mangiamo più gru, ma neanche rondini, cigni, cicogne, pavoni, aironi, tutte prelibatezze medievali. In compenso non disdegniamo lumache e rane che farebbero invece inorridire mezzo pianeta.

L’Ue autorizza il nutrirsi con gli insetti, ma i vermi, le larve, gli insetti in genere, sono stati, e sono, il più infrangibile tabù alimentare delle culture di derivazione europea. Abbiamo cambiato nome ai vermicelli, ribattezzandoli spaghetti, perché ricordavano troppo i vermi. Ci sono stati casi di esploratori bianchi che hanno preferito morire di fame anziché mangiare larve. E durante le grandi carestie abbiamo scarsissime notizie di sopravvivenze grazie a insetti. Le cronache ci riferiscono di cannibalismo, di autofagia (ci si tagliava un arto e lo si mangiava nel tentativo, quasi sempre inutile, di sfuggire alla morte), per esempio durante la guerra dei Trent’anni che a metà Seicento uccide 12 milioni di persone nell’Europa centrale. Per sottolineare che qualcuno era deceduto per fame si annotava che il morto aveva «l’erba in bocca»: il massimo della fame era tentare di mettere sotto i denti ciò che mangiavano gli animali. Non la terra – che si mescolava alla farina per fare il pane nei periodi bui, e che comunque si mangia anche oggi, vedi l’argilla ingurgitata come una sorta di toccasana – e tantomeno gli insetti. Per la verità nulla ci ha impedito di mangiare gli insetti di mare, di trasformarli anzi in leccornie degne delle tavole più ricche: le aragoste, imparentate con gli scorpioni, o le grancevole, parenti strette dei ragni.

I medici hanno sempre cercato di stabilire cosa faccia bene cosa male, spesso sulla base del criterio di vietare tutto ciò che è buono, come sosteneva Giovanni Rebora, uno dei più illustri storici italiani dell’alimentazione. Ma i cibi vietati e quelli autorizzati sono parecchio cambiati nel corso dei secoli. Per esempio tra fine medioevo e prima età moderna un contadino che avesse mangiato volatili, sarebbe morto perché il suo stomaco non era in grado di digerirne la carne. Ridete? Be’, pensate a Bertoldo, il rozzo contadino finito a corte che «morì con aspri duoli per non poter mangiare rape e fagioli.» Vincenzo Tanara, medico bolognese vissuto a metà Seicento, spiega che i contadini non possono mangiare il pane bianco riservato alla gente di città e che viceversa se nobili e borghesi mangiassero il pane nero delle campagne si ammalerebbero. Ancora ai nostri giorni chiamiamo «minori» i cereali come avena, miglio, spelta, orzo, panìco, non perché abbiano minor capacità nutritiva del frumento, ma perché costituivano il nutrimento delle classi sociali minori.

Nulla di nuovo sotto il sole: oggi si demonizza il grasso, si dipinge a tinte fosche il raffinato, che sia zucchero o farina. Il rifiuto del burro ha fatto sì che sia cresciuto esponenzialmente il consumo di grasso di palma, con gli industriali alimentari che ringraziano i burrofobici, perché il secondo costa molto meno del primo. O ancora ecco il grande nemico costituito dal glutine, quando fino a non moltissimi anni fa si aggiungeva glutine alla pastina per i bambini perché «fa bene». Si esalta l’integrale, il cibo grigetto, sciapo, bruttino. La polenta di mais ha trionfato sulla polenta bigia di grano saraceno, ricordata da Alessandro Manzoni nei “Promessi sposi”, anche perché è bella, colorata, gialla come il sole.

Quindi insetti sì, carne rossa e lavorata no. Ma sono attacco anche il pesto genovese perché l’uso intenso dei pinoli provocherebbe il depauperamento delle foreste di pini russi, e il formaggio, reo pure quello di far venire il cancro, secondo la nuova bibbia dei vegani, ovvero “China Study”, scritto da un ex carnivoro, Colin Campbell,  capace di tutto il livore dei convertiti contro il loro precedente credo. Eh già, perché alla fine probabilmente ha ragione Marino Niola, antropologo e studioso del cibo: le tendenze alimentari odierne corrispondono un po’ alle eresie medievali. I vegani come gli albigesi, i crudisti come i catari, con tutta l’adesione fideistica e la disponibilità al sacrificio tipica degli adepti. Il tofu è il nuovo cilicio, l’integrale corrisponde all’autoflagellazione. Penitenziagite.

Oggi la tendenza va verso il vegetarianismo con coloritura vegana. Si tratta di un fenomeno d’élite, da alta borghesia che fa tendenza, un po’ come il marxismo attorno al Sessantotto. Chi contraddice è immediatamente tacciato d’eresia. Le organizzazioni sanitarie si adeguano, seguono la corrente, più che indirizzarla. Ora, immaginatevi un medico che dica: la carne? Non fa male. Il glutine? Massì. La farina? Non è un problema. Il burro? Purché non si esageri. Molto probabilmente cambiereste medico. Un bravo dottore deve prescrivere, vietare, impedire; altrimenti che dottore è? Un mollaccione che permetta di questo e di quello non è degno di averci in cura.

Certo, mangiarsi ogni mattina che dio manda in terra pancetta bruciacchiata non è un toccasana: i grassi esausti non han mai fatto bene a nessuno. Ma nell’approccio all’alimentazione ci dev’essere un solo comandamento: ragionevolezza. Non appare affatto ragionevole mangiare troppo, ingrassare e spendere un mucchio di soldi per dimagrire. Basterebbe mangiare meno, senza autoflagellarsi a colpi d’integrale spinto.

E poi seguire sempre la massima di Luigi Einaudi: «Conoscere per deliberare». Informarsi, alla fin fine, non è difficile.

 

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