Governo
Chiamiamo le cose col loro nome: il blocco delle pensioni è un caso di default
E’ giunto il momento di parlare chiaro. Nel 2011 le lacrime di Elsa Fornero non chiedevano un sacrificio, ma annunciavano un evento di default della Repubblica Italiana: un default sulle pensioni. Oggi invece il sorriso guascone e magnanimo di Matteo Renzi spaccia per “bonus” ciò che invece tecnicamente è un “recovery rate”, cioè il tasso di recupero su un credito finito male. E i pensionati che lamentano una perdita svelano e confermano che, oltre sacrifici e regali, la Repubblica Italiana ha fatto default sulle pensioni italiane. Non è certo una perdita secca di capitale, cioè una Loss Given Default o un haircut come è capitato ai creditori di Argentina e Grecia, ma è pur sempre una perdita, inflitta alla ricchezza pensionistica invece che a quella finanziaria. Il vantaggio, per la Repubblica Italiana, è che fare default di fronte ai pensionati è molto meno rischioso e costoso che fare default con i mercati.
Non ci vuole molto a mostrare che l’annuncio di Elsa Fornero sul blocco della rivalutazione delle pensioni all’inflazione sia stato un “credit event”, cioè un caso di default. Pensate cosa sarebbe successo se invece di parlare di pensioni Elsa Fornero avesse annunciato che non sarebbero stati rivalutati gli interessi pagati sui titoli indicizzati all’inflazione. La stampa interna e internazionale si sarebbe scatenata con titoli sul default italiano, e i più morbidi e più tecnici avrebbero titolato: “Italy invokes grace period on inflation linked bonds”. E’ il “periodo di grazia”, cioè la sospensione temporanea del pagamento degli interessi che è una delle tecniche utilizzate nella ristrutturazione dei crediti. Questa tecnica è stata applicata alla ricchezza pensionistica.
Di fronte a questa dura realtà di un default, la reazione dei costituzionalisti alla decisione della Consulta suscita tenerezza. Nessuno ha notato il ridicolo di una decisione presa “ai punti” come in uno di quei vecchi incontri Benvenuti-Griffith che tenevano l’Italia con il fiato sospeso quando ero bambino. E viene in mente la palese differenza tra il pensiero scientifico e quello giuridico. Di fronte a un “sei pari” nessuna verità scientifica si sarebbe potuta formare, e si sarebbe rimasti nel campo dell’indecidibile. Ma riconoscere di non essere in grado di decidere non è tollerato nel diritto, forse perché il fine non è riconoscere alcuna verità, meno che una “verità giudiziaria”.
I giudici della Consulta hanno deliberato sulla verità della coerenza con la Costituzione di un atto di governo senza neppure dare un’occhiata alla verità scientifica di un atto di default. E si moltiplicano le tesi, anche queste buffe, per cui la Consulta avrebbe dovuto contemperare diritto e compatibilità economiche. In altri termini, avrebbe dovuto censurare o attenuare un giudizio di coerenza alla costituzione in base al costo e ai rischi del bilancio. Insomma, saremmo un paese con una Costituzione soggetta alla congiuntura economica, con principi che sono coerenti con la Costituzione in espansione, ma non lo possono essere in recessione. In alternativa, Sabino Cassese ha suggerito la tecnica della sentenza “additiva di principio”, con un curioso linguaggio mutuato dalla matematica. Con una sentenza di questo tipo il principio resterebbe lo stesso, ma verrebbe rimandato alla politica il momento di attuarlo.
Il comportamento della Consulta non è stato né congiunturale né “additivo di principio”. E’ stato quello di un giudice fallimentare, un mestiere che non sa fare e che si dovrebbe inventare ex-novo. Nel default di uno stato, infatti, le perdite non possono essere ripartite con la regola del “pari passu” (stessa perdita percentuale per tutti) come nella finanza. Ed è da definire ex-novo chi debba essere protetto in caso di default e chi no: chi prende tre volte il minimo della pensione? Chi ne prende quattro? Qui la Consulta sventurata si è imbattuta anche nei paradossi della filosofia greca. E’ il paradosso del “sorite”: quanti chicchi di sabbia fanno un mucchio? Tre? Quattro? Alla fine tra economia e filosofia la Consulta ha lasciato aperto il problema di come ripartire i costi di un default tra i creditori in un episodio come quello del 2011.
In conclusione, la Consulta si è trovata di fronte a qualcosa che non ha saputo identificare: un default. E di fronte al default non è riuscita a cogliere due elementi fondamentali. Il primo è il perimetro dei creditori che sopportano le perdite. Qui la partita non è solo tra pensionati poveri e ricchi, ma tra ricchezza pensionistica e ricchezza finanziaria: perché non si è chiesto un contributo a chi investiva in titoli? L’argomento di Monti che chi ha i titoli scappa, mentre chi ha una casa e una pensione no, può avere avuto valore economico, ma non giuridico di fronte alla Consulta. Il secondo elemento è che il default non è sempre e solo un evento negativo. In certe occasioni, consente di rigenerare il tessuto produttivo e in qualche caso può anche aiutare la giustizia sociale. Nel caso in cui onorare una sola pensione assorbe i contributi di decine o centinaia di lavoratori, il default sarebbe sacrosanto e benvenuto. Forse questa è l’unica lezione della vicenda delle pensioni italiane. Si proceda pure al default: “adelante, con juicio”.
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