Governo
Blocco, sforamento e rinvio
Non ci stupisce che i conti pubblici non tornino, visto che lo avevamo anticipato, i dati del secondo trimestre depongono assai male, circa la possibile chiusura di fine anno. Intanto prende forma il calendario e, come da suggerimento del Quirinale, il referendum verrà dopo la legge di stabilità e la sua approvazione da parte di almeno un ramo del Parlamento. Questo ha un preciso significato, perché consentirebbe al presidente della Repubblica di firmare un decreto legge che la contenga, nel caso in cui le urne referendarie portassero alla crisi di governo. Si eviterebbe, come è saggio, la crisi istituzionale, non aggravando il già pesante quadro economico.
Enrico Morando, vice ministro all’economia, ha ammesso tre cose: a. il deficit per il 2017 sarà superiore al promesso 1.8%; b. non c’è spazio per riduzioni dell’Irpef; c. la nota di aggiornamento verrà scritta sulla base della previsione di crescita che l’Istat farà il 27 settembre. Questi tre paletti vanno letti con attenzione, perché lì attorno girano i nostri soldi.
Quel deficit era stato fissato dopo che erano stati sforati quelli precedenti. Il governo aveva garantito la correzione futura, che ora si trova a non potere rispettare (come anche la sbandierata diminuzione del debito). Dicono che stanno trattando, con la Commissione europea, per ottenere maggiore “elasticità”. Ma non prendiamoci in giro: il problema non è la Commissione, quanto il fatto che continuiamo a peggiorare la nostra condizione, spostando nel futuro i costi dell’incapacità di governare i conti. Sentiremo ripetere che anche i tedeschi sforano i parametri, con il loro surplus commerciale. E’ vero, ma è un’obiezione senza senso: loro li sforano (non dovrebbero e andrebbero fermati) accrescendo la potenza, noi accrescendo la debolezza. Mica la stessa cosa. Sforiamo, dicono dal governo, per sostenere la crescita. Falso: sforiamo ripetutamente e continuiamo a crescere molto meno degli altri Paesi dell’Eurozona. Quello è il nostro problema più grosso (che già si riflette negli spread, anche se non è più di moda farci caso).
Cresciamo poco, sostengono, perché ci sono stati Brexit, il terrorismo e la crisi turca. Ci sono stati anche per quelli che crescono ben più di noi. Cresciamo meno perché da noi conviene meno investire, dato che i costi fiscali, previdenziali e burocratici sono enormemente più alti che altrove, mentre la giustizia resta una chimera. Così sprechiamo anche la stagione dei bassi tassi d’interesse. Peggio: dalle stanze del governo s’è cominciato a dire che sono proprio i bassi tassi ad avere favorito la crisi delle banche. Posto che questa è la tesi dei tedeschi, trovarla in bocca al Paese con il più alto debito pubblico, quindi il più favorito da quella politica della Banca centrale europea, è davvero curioso. O hanno perso la bussola o hanno preferito buttarla, per non sapere su quale scogliera stanno facendo rotta.
Aspettare la fine di settembre, per rifare i conti, e presentare il 15 di ottobre la legge di stabilità, rende più difficile quel che il Quirinale saggiamente chiede. Potranno dire che hanno dovuto adeguarsi alle previsioni dell’Istat, ma avranno solo allungato i tempi.
La legge di stabilità andrebbe presentata dopo ferragosto, avvertendo che il taglio delle spese correnti non è più procrastinabile, se si vuole avere un margine per gli investimenti. Invece si cercheranno margini, a debito, per qualche bonus a nulla. Scelte da farsi subito, se si volesse governare. Rimanda, invece, chi punta a durare.
Davide Giacalone
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