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Altro che 80 euro, in finanziaria miliardi in pegno alle banche d’affari

4 Novembre 2014

Una norma annegata nelle pieghe della legge di Stabilità 2015 potrebbe costringere l’Italia a versare miliardi di euro su conti esteri di garanzia a favore delle banche d’affari internazionali con cui sono in essere contratti derivati su circa 160 miliardi di debito pubblico. Si tratta dei contratti stipulati a metà anni Novanta con cui il Tesoro si tutelò dal rischio di rialzo dei tassi di interesse, ottenendo peraltro anticipazioni di cassa che fecero scendere il deficit sotto il 3% e ottenere l’agognata ammissione nell’euro.

La novità è contenuta nell’articolo 33 della legge che da ieri è all’esame della commissione bilancio della Camera e finora è stata tenuta in sordina dagli annunci del governo Renzi. In contrasto con la prassi fin qui seguita, si vorrebbe autorizzare il Tesoro «a stipulare accordi di garanzia in relazione alle operazioni in strumenti derivati». Una previsione nota agli addetti ai lavori come “Double way Credit Support Annex (CSA)”. Si tratta di una clausola di reciprocità che obbliga la parte su cui grava la perdita potenziale a garantire i pagamenti futuri sui contratti derivati attraverso un deposito di garanzia. Dato il basso livello dei tassi di interesse, al momento è lo Stato la parte su cui grava la perdita potenziale, o come si dice in gergo tecnico quella con “mark to market” negativo. Sarebbe perciò il Tesoro a dover postare “collaterale” a garanzia degli impegni, in modo da immunizzare le banche dal rischio di controparte. Una situazione non molto diversa da quella in cui si è trovata Banca Mps verso Nomura e Deutsche Bank nelle operazioni Santorini e Alexandria: la banca senese a garanzia degli impegni presi ha dovuto versare garanzie collaterali per 5 miliardi. Nella formulazione della norma si rimanda la definizione delle modalità applicative a un futuro decreto del ministro dell’Economia senza porre alcun paletto all’applicabilità sui nuovi contratti. Cosa che potrebbe scatenare un pressing massiccio delle banche d’investimento alla rinegoziazione dei contratti esistenti.

 

Articolo 33 del progetto di Legge di Stabilità

«Il Tesoro è autorizzato a stipulare accordi di garanzia bilaterale in relazione alle operazioni in strumenti derivati. La garanzia è costituita da titoli di Stato di Paesi dell’area dell’euro denominati in euro oppure da disponibilità liquide gestite attraverso movimentazioni di conti di tesoreria o di altri conti appositamente istituiti. Ai conti di tesoreria, ai conti e depositi, di titoli o liquidità, intestati al Ministero presso il sistema bancario e utilizzati per la costituzione delle garanzie si applicano le disposizioni del comma 6 dell’articolo 5. Con decreto del Ministro sono stabilite le modalità applicative del presente comma»

Nel caso dei derivati del Tesoro, la norma proposta prevede che la garanzia «è costituita da titoli di Stato di Paesi dell’area dell’euro denominati in euro oppure da disponibilità liquide gestite attraverso movimentazioni dei conti di tesoreria o di altri conti appositamente istituiti». Ma è soprattutto l’ipotesi delle disponibilità liquide quella «maggiormente probabile» a giudizio della stessa relazione tecnica del governo. Sarebbe infatti curioso che una banca già esposta verso un debitore (il Tesoro) accettasse a garanzia dell’esposizione altri titoli dello stesso debitore. In concreto, se la novità proposta divenisse legge, il Tesoro dovrebbe stornare liquidità dai propri conti verso un deposito di garanzia aperto presso una banca depositaria terza. Quanto? Difficile dirlo. Sarebbe certamente una percentuale delle perdite potenziali in corso.

Per avere un’idea, su un pacchetto di 8 derivati a valere su un debito di 31,7 miliardi di euro, la perdita ammontava 8,1 miliardi, circa il 25 per cento, stando a una relazione riservata inviata dal Tesoro alla Corte dei conti a inizio 2013 e di cui hanno dato notizia Andrea Greco su Repubblica e Guy Dinmore sul Financial Times. Da quando furono stipulati a metà anni ’90 dall’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi (ministro del Tesoro era Carlo Azeglio Ciampi e premier Romani Prodi), i contratti derivati del Tesoro sono sempre stati uno dei segreti meglio custoditi della Repubblica. Solo nel marzo 2012, a seguito del clamore suscitato dal recesso esercitato dalla banca Morgan Stanley su un contratto, che comportò un esborso pubblico di 2,57 miliardi di euro, il governo Monti presentò al Parlamento una relazione da cui risultava che il Tesoro aveva in essere derivati a valere su 160 miliardi di euro di debito pubblico (importo nozionale).

Creditori privilegiati. Un altro effetto non trascurabile della norma è che di fatto le investment bank come Morgan Stanley, Jp Morgan, Deutsche Bank e le altre con cui sono in essere i derivati diventerebbero di fatto dei creditori privilegiati della Repubblica Italiana. In caso di default, infatti, si potrebbero rivalere sui depositi di garanzia: l’articolo 33 della legge di Stabilità, in sostanza, autorizza una costituzione di un privilegio che avvantaggia le banche d’affari rispetto ai semplici possessori di Btp, gran parte dei quali sono detenuti da persone fisiche e istituzioni italiane. Da tempo, del resto, le investment bank premevano per ottenere l’inserimento della clausola double way CSA, che è piuttosto tipica nei contratti fra privati ma è insolita quando di mezzo c’è uno stato sovrano. Anzi, il regolamento europeo sui derivati (Emir), entrato in vigore quest’anno, esclude esplicitamente gli stati. «Tale pratica operativa – spiega il Tesoro nella relazione illustrativa – è già stata adottata da altri emittenti sovrani: ad esempio, è già attivo da tempo in Svezia, Portogallo e Danimarca ed è stato di recente introdotto dalla Bank of England». In realtà, si tratta di situazioni differenti: tra il 2010 e il 2011 fu, poco prima che infuriasse la crisi, per il Portogallo fu una resa agli appetiti delle banche d’affari; nel caso degli stati più autorevoli finanziariamente può invece essere una trovata per risparmiare oneri finanziari. Ma comunque la si veda, per un paese indebitato come l’Italia accettare la CSA è un pessimo segnale sulla propria affidabilità creditizia.

Una norma “cannata”. L’anno scorso, nel collegato alla legge di Stabilità, era comparsa una norma analoga, ma all’ultimo momento l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni fece marcia indietro. Quest’anno puntualmente è ricomparsa, a dispetto del passaggio di consegne da Saccomanni all’attuale ministro Pier Carlo Padoan. Il motivo è presto detto: il pressing arriva dalle strutture interne del Tesoro, e in particolare da una dirigente di primo piano come Maria Cannata Bonfrate, responsabile della direzione debito pubblico. Un nome che nei corridoi di Via XX Settembre c’è dai primi anni Novanta e per cui Draghi tuttora stravede. Probabilmente, fra i dirigenti del ministero, la memoria più lunga sui derivati di Stato. E certo le argomentazioni tecniche presentate quest’anno sostanzialmente si equivalgano a quelle dello scorso anno. Viene citato, per esempio, il contesto regolatorio che obbliga le banche a considerare nei requisiti di capitale le esposizioni creditizie generate da posizioni in strumenti derivati (in altri termini quando il derivato ha valore negativo per la controparte, è come se la banca stesse concedendo credito). «Tutto ciò potrebbe tradursi in un disincentivo nell’acquisto di titoli pubblici italiani con un impatto negativo sulla domanda che a sua volta può generare incrementi nei tassi». Se poi si considera – è il ragionamento del Tesoro – che, sulle somme in deposito, «sarà possibile negoziare con ogni controparte uno spread sui tassi monetari e, in caso questi ultimi siano negativi, un floor a zero, è verosimile pensare che possa esserci saldo positivo per lo Stato». Insomma, un affare. A condizione di dare in pegno la liquidità del Tesoro alle investment bank.  Se mai l’Italia dovesse fallire, la situazione sarà dura per tutti: tranne che per loro.

 

 

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