Beni comuni
A palmizi e bananeti noi rispondiamo col dito di Cattelan
Per definire lo stile di un’idea come piantare palmizi e bananeti in Piazza del Duomo, c’è un sistema matematico-scientifico: infilarsi nella casa del capo-idea e guardare. Guardare che casa è, sentirne il clima, osservare se stili diversi dialogano e in che modo, buttare un occhio a ciò che è appeso ai muri, fare una capatina in bagno spesso foriero di sorprese, notare soprattutto se tutto è al suo posto, dove dev’essere cioè. Nel nostro caso, ci sarebbe da infilarsi in tre case: inevitabilmente in quella del capo progetto, l’architetto Marco Bay, poi in quella del nostro caro Beppone Sala (in zona Brera) che comunque ha dato il suo parere favorevole, e ultima, ma non meno significativa, nella magione della sovrintendente Antonella Ranaldi, la quale per il momento ci ha dispensato due perle come “giardino à la page” e “provocazione”. Per soprammercato, un’occhiata distratta andrebbe data anche alla casa di Del Corno, il nostro assessore alla cultura, già in pienissima forma Champions quando autorizzò l’oscena mela pistolettiana davanti alla Stazione. Ma insomma, se l’obiettivo dei nostri eroi era di siglare simbolicamente una sindacatura, come già accadde per il settennato di Mitterand, quando il visionario presidente impose ai riottosi la piramide di Pei, beh probabilmente così non sarà. Il problema delle città, e Milano non sfugge alla regola, è che spesso la committenza non c’è. Raccontava Meier, anche piuttosto divertito, che non gli era mai capitato di inaugurare una sua opera cinque o sei volte com’è accaduto per l’Ara Pacis a Roma, un lavoro certamente interessante, ma non terminato come il progetto originario aveva immaginato. Ara Pacis, peraltro, che suscitò l’immediato interesse del neo-sindaco Alemanno, quando disse che l’avrebbe volentieri rasa al suolo.
In queste ore qualcuno sta rispolverando il concetto di «kitsch» applicato a palmizi e bananeti, nel tentativo di spostare la questione sul terreno dell’arte e del costume. Ma il kitsch è davvero cosa seria oltre che estrema, che si ottiene con un processo mentale molto complesso e certosina applicazione delle disarmonie. Per di più gli effetti del kitsch sono immediati e dirompenti, ma non in termini di polemica ma “semplicemente” di stupefazione culturale. Qui l’idea di piantare qual che si è piantato a Piazza del Duomo viaggia più sui percorsi della tamarrata che del kitsch. E poco importa se un movimentista da salotto come Philippe Daverio parla di “un’idea fantasiosa in linea con la storia di Milano”. Ma chissenefrega se nel XIX secolo c’erano le palme a piazza Duomo.
È paradossale come nel tempo della massima contaminazione, qui a Milano ci si impicchi a un palmizio. È un fatto di preparazione culturale, di respiro asfittico, di mancanza di uomini? Milano, che in Italia è la migliore di tutte bla bla bla…, sotto questo cielo non muove paglia. L’ultimo dialogo di un certo livello per fortuna è ancora lì, dove non doveva essere perché immaginato come un «Vaffanculo temporary» e invece resistente a tutte le intemperie. Il ditone di Cattelan in piazza Affari è stato l’ultimo refolo di aria fresca conosciuto (qui, credo che Boeri abbia un qualche merito). Poi più nulla. Un luogo del contemporaneo non c’è, non c’è un museo (uno scandalo), c’è la Triennale coi suoi compitini ora riusciti ora no, tocca ai privati supplire perché Fondazione Prada è un luogo di grande decenza.
Buon ultimo, il problema dello sponsor. Anche in questo caso, capacità di dialogo prossima allo zero. C’è il colosso Starbucks che vuole investire? Che sia benedetto. Vuole lasciare il segno in città e nel cuore della città come piazza Duomo. Benissimo. Perché poi tutto si quantifica. Quantificò Renzi “affittando” alla Ferrari Ponte Vecchio, si era intorno ai duecentomila, pochini invero. Si affittano gli Uffizi, certe sale, e qui la cosa è un cicinin più problematica. Ma nel nostro caso siamo all’aria aperta, dai, non facciamoci troppi pipponi. Quanto abbiamo preso per questo Temporary tropicale della durata di anni tre? Se non abbiamo portato a casa un pacco di soldi, siamo dei dilettanti allo sbaraglio. È tutto qui, se vogliamo mettere da parte la questione culturale. Si dica ai cittadini: per questa roba abbiamo preso tot euro. E ci serviranno per fare questo, questo e questo.
Ps. Noi di Stati Generali lo ribadiamo qui. Siamo interessati a una visita guidata in casa dell’architetto Bay, del sindaco Sala, della Sovrintendente Ranaldi. Giusto per capire.
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