Beni comuni
Il 2016 e la Cultura
Sono stati numerosi, in questo periodo di fine/inizio anno, gli articoli che hanno cercato di immaginare il futuro culturale di questo Paese: alcuni validi, altri ottimisti. Non sono in grado di immaginare con certezza come il comparto culturale italiano evolverà nei prossimi 12 mesi, ma c’è un tema che credo debba entrare sempre con più forza all’interno dell’agenda pubblica culturale. È un tema insolito per un settore che nell’immaginario collettivo si compone di artisti, personaggi sui generis dai papillon sgargianti e dallo stile comunicativo professorale. Ma l’evoluzione del comparto culturale, così come ha reso obsoleto questo cliché, dovrebbe anche liberarsi di alcune idiosincrasie romantiche. Per dirla breve, il tema che vorrei affrontare riguarda il ruolo che le politiche fiscali possono giocare all’interno di un comparto che è ormai costituito da imprenditori (giovani e non), da imprese che infondono risorse all’interno dell’economia nazionale, e lo fanno con passione, serietà e professionalità.
Il fisco, o meglio, la politica fiscale, ha già un notevole impatto sulle dinamiche culturali, solo che tale impatto è raramente positivo. Ogni operatore ne è consapevole, ma solo nella sua dimensione individuale, con il risultato che oltre che a lasciarsi andare a qualche imprecazione personale non si va oltre.
Ciò che invece è il mio auspicio per questo 2016 è che si riesca a diffondere la consapevolezza che le dinamiche fiscali italiane, per ciò che concerne il comparto culturale, rappresentano un notevole ostacolo allo sviluppo di un mercato nella sua forma aggregata, e che questo ha un impatto profondo sul volume d’affari delle imprese culturali, sul numero di dipendenti che queste possono assumere, sulla capacità di progettazione internazionale e sul livello di redditività degli investimenti, e che questo, in soldoni, si traduce in poche mostre a produzione italiana che circuitano sui mercati internazionali, in studi dell’audience da primo millennio, in progetti di riqualificazione urbana declinati soprattutto nelle dimensioni edili e in definitiva, in un Italia meno ricca e meno bella.
L’attuale esecutivo ha fatto della Cultura uno dei suoi temi preferiti, con iniziative non sempre efficaci e una comunicazione al contrario sempre eccellente. Il ritornello cui da anni ci hanno abituato è che non ci sono risorse, ma in realtà le risorse, oltre ad esserci, sono condizione necessaria ma non sufficiente.
Oltre all’erogazione di fondi, lo Stato dovrebbe attuare delle riforme sistemiche in grado di permettere agli operatori del settore di agire secondo regole coerenti con il nostro sistema sociale, mentre allo stato attuale siamo governati da leggi e regolamenti del tutto anacronistici (alcuni risalenti al Ventennio fascista): si può dire evoluto un sistema culturale così?
Facciamo degli esempi: il Governo ha introdotto l’artbonus, ma questo strumento è costruito per favorire il micro-mecenatismo piuttosto che le grandi donazioni, e non è mai stata fornita una esaustiva spiegazione su questa scelta. Ma non è certo finita qui: sempre il Governo ha dedicato una battaglia pubblica all’allineamento dell’aliquota IVA degli e-book ai prodotti librari cartacei (anche se era una scappatoia per annullare gli effetti di una riforma europea) ma non si è minimamente preoccupato dell’assurdità che regola il mercato dell’arte. In pratica oggi, un libro d’arte ha un’imposta del 4% mentre l’opera che riproduce è soggetta ad un’aliquota del 22%! E c’è di più: se l’opera viene venduta da un “privato cittadino” è soggetta ad un’aliquota, se è venduta da una galleria ne è prevista un’altra! Ma dico, stiamo scherzando? Qual è il risultato di tutto ciò? Che il mercato dell’arte in Italia conta meno dell’1% mondiale, che è come dire che in un arrotondamento tutto il mercato italiano viene cancellato senza pensarci.
L’industria culturale e creativa non è fatta di sola arte, ma anche di turismo, innovazione, sistemi innovativi di reperimento dei capitali e anche in questi casi c’è ancora molto da fare. Pensiamo al fenomeno del Tax Free Shopping, un mercato immenso, in cui gli italiani perdono cifre astronomiche perché il Governo non si è ancora pronunciato al riguardo. Pensiamo al fenomeno del Patent Box, in cui gli incentivi sono calcolati sulla base del reddito derivante dall’utilizzo del bene innovativo, e non sulla fase di ricerca&sviluppo, con il risultato di premiare la ricerca solo quando ha già portato a benefici tangibili, e di conseguenza rendendo più difficile l’adesione delle PMI (che non hanno i capitali per sostenere anni di ricerca) alle nuove esigenze di prodotti sempre più innovativi.
O ancora il caso del crowdfunding in cui la tempestività della regolamentazione sembra più rispondere alle esigenze di poter mettere sotto il controllo bancario anche questo fenomeno piuttosto che permettere un concreto sviluppo dello stesso.
Quindi se c’è qualcosa che c’è da aspettarsi nel 2016 non è che il Governo, da solo, mostri interesse per la realizzazione di una politica fiscale coerente per il comparto culturale, ma che gli operatori del settore inizino a comprendere che l’erogazione di fondi non è l’unico strumento perché si agevoli un’attività, e che inizino ad avere consapevolezza che anche e soprattutto attraverso le politiche fiscali si possono creare le condizioni per un vero sviluppo. Se l’erogazione premia anche chi non produce reddito, una politica fiscale efficiente è uno strumento molto più equo, in quanto permette a chi produce reddito e ricchezza di farlo meglio.
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