Finanza
Quattro buone ragioni per dire di no alla Bad Bank
In questi giorni si parla molto della formazione di una bad bank italiana. Alvarez & Marsal, la società per cui lavoro, ne ha incrociate diverse, in alcuni casi lavorandone alla creazione, come è stato per la Spagna e, con una certa cognizione di causa, posso dire che il progetto non mi piace.
È uno strumento tecnico che può essere efficace solo in alcuni casi, per esempio per i crediti legati al mondo dell’immobiliare, dove il problema principale è quello della mancanza di una domanda sufficiente ad assorbire i progetti invenduti. Ma nel caso del sistema produttivo italiano, la bad bank pare più una scorciatoia per evitare di affrontare le conseguenze di decisioni creditizie sbagliate.
Premesso che non credo a chi sostiene che potrebbe essere considerata dalla EU un aiuto di Stato – perché l’Italia dovrebbe essere tratta diversamente dalla Spagna o dall’Irlanda? -, la bad bank non mi piace per almeno quattro ragioni.
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1) Non aumenta la liquidità dello stock di credito deteriorato, anzi, da un punto di vista di mercato, rischia di ridurla. La bad bank agisce secondo regole non del tutto allineate a quelle della massimizzazione del profitto e gli investitori specializzati non vedrebbero di buon occhio dover competere con un player dalle logiche non omogenee con le loro. Se le banche vogliono cedere i propri crediti deteriorati a “vere condizioni di mercato”, non c’è bisogno della bad bank. Gli acquirenti specializzati non mancano, come dimostra non solo l’attività di dismissione dei portafogli di NPLs portata avanti da diversi istituti, ma anche il numero di fondi d’ investimento specializzati nelle situazioni distressed che hanno più volte manifestato interesse all’acquisto di crediti, sia in portafogli che su base single name, ma che non hanno mai trovato un intesa sul prezzo. Certo per fare questo, bisogna avere il capitale necessario ad assorbire le minusvalenze che da tali cessioni derivano. Che differenza farebbe quindi la bad bank? Nessuna.
2) Non tutti i crediti possono essere trattati nello stesso modo. Delle quattro categorie di crediti deteriorati che compongono gli oltre 300 miliardi di Euro che affliggono il sistema italiano (Crediti scaduti, Ristrutturati, Incagli e Sofferenze), una parte non irrilevante delle prime due, e probabilmente anche una parte della terza e forse della quarta, potrebbe essere recuperata con una gestione diversa e proattiva delle pratiche – questo è per altro uno dei core business di Alvarez & Marsal. Ebbene non è con la creazione di una grande accozzaglia di crediti indifferenziati che si ottiene il recupero di valore, a maggior ragione se tale insieme dovesse avere garanzie governative che, come la storia ha dimostrato (GEPI, Efim, etc.), difficilmente hanno portato a decisioni drastiche ed a volte anche drammatiche, ma necessarie alla “pulizia” di un mercato spesso sovraffollato. La creazione della bad bank porterebbe probabilmente al prolungamento dell’agonia di molti casi che non meritano di sopravvivere e probabilmente all’affossamento di quelle (poche) situazioni che, con decisioni rapide ed incisive, potrebbero essere salvate, con grave nocumento sia per il mercato sia per coloro che sul mercato potrebbero starci e quindi potrebbero essere salvati.
3) Non aiuta a risolvere alla radice la causa della crisi finanziaria ed industriale che il mercato affronta. Levare alle banche il peso del credito deteriorato – dato e non concesso che venga fatto a “vere condizioni di mercato” – non rimuove la causa principale che ha generato la crisi a cui assistiamo. Da una parte il credito facile, basato più su considerazioni di relazione ovvero di supposte garanzie reali che però al momento buono si sono rivelate incapienti. Dall’altro il problema del cosiddetto “sottostante”. Il Credito andrebbe concesso sulla base di due tipi di valutazioni: prima di tutto Industriale; il progetto che il credito va a finanziare è in grado, a fronte delle attuali e prospettiche condizioni di mercato, di ripagare il proprio debito? Questo è il credito erogato sulla base di un business plan, che nel vecchio mondo era la regola per gli istituti di medio termine. Il secondo tipo di valutazione riguarda la struttura del capitale: il rapporto tra debito e capitale è sufficiente ad assicurare un cuscinetto nel caso di andamento negativo? Non mi pare che la bad bank aiuti le banche ad imparare dagli errori fatti in passato ma anzi a dimenticarli.
4) Non aiuta ad aggiungere liquidità al sistema creditizio ed invece leva la focalizzazione necessaria alla soluzione di problemi diversi e variegati. Se, ripeto, le cessioni vengono fatte al “vero valore di mercato”, l’impatto sul capitale non si riduce né tanto meno aumenta la liquidità disponibile nel sistema per i nuovi prestiti. In un contesto in cui potenzialmente la liquidità è garantita da altri strumenti quali il QE recentemente approvato dalla BCE, la problematica non mi pare essere quella della disponibilità della liquidità per fare credito, bensì quella di focalizzare la attenzione sulle attività che ogni file richiede per essere salvato. Secondo i casi quindi, il recupero crediti (tipico dei portafogli di NPL), il cambio di management, la disponibilità di nuova finanza per accompagnare una revisione del progetto industriale sottostante, o una delle tante altre combinazioni che vediamo giornalmente. Ancora una volta fare di ogni erba un fascio, cosa che per esperienza accade nel caso di una bad bank, non mi pare essere la soluzione ideale.
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Non serve la bad bank. Serve invece, incentivare le banche a fare pulizia nei propri bilanci con una fiscalità idonea e con capitale di rischio a disposizione. Come avvenuto per esempio in USA e UK dove lo Stato è diventato azionista, a volte anche di maggioranza, seppur in forma pro tempore, facendo pagare ai vecchi azionisti gli errori commessi e, una volta risanati i bilanci, ne è uscito, spesso con laute plusvalenze. E qui attenzione non si sta parlando di azioni senza diritti di voto, ma di azionisti attivi con obiettivi chiari e precisi. Ma questa è un’altra storia.
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