Finanza

Mps, la prima sofferenza di cui liberarsi è l’amministratore delegato Viola

26 Agosto 2016

Una banca come il Monte dei Paschi di Siena, che per l’ennesima volta è in procinto di chiedere svariati miliardi di euro agli investitori, dovrebbe quanto meno farlo nelle condizioni più idonee a ispirare un briciolo di fiducia. La domanda è se la presenza di un amministratore delegato come Fabrizio Viola, che da gennaio 2012 gestisce l’interminabile ristrutturazione della banca, sia in grado di garantire queste condizioni in termini di credibilità manageriale e reputazione.

Viola è a Siena da quasi cinque anni. Ha già scucito agli azionisti 3 miliardi nel 2015 e 5 miliardi nel 2014. Altri 5 ulteriori miliardi li chiede oggi. Nel conteggio andrebbe considerato anche l’aumento di capitale di 2,15 miliardi realizzato giusto sei mesi prima dell’arrivo di Viola, quando a Siena comandavano Giuseppe Mussari presidente e Antonio Vigni direttore generale. Ogni ricapitalizzazione è stata accompagnata da proclami di magnifiche sorti: «Viola: Mps risanato, avanti in autonomia» (Il Sole 24 Ore, 1° luglio 2014), «Viola: Mps più forte per trattare la fusione» (Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2015), «Viola: La cura per Mps funziona» (Corriere della Sera, 15 dicembre 2015). Più di recente: «Dopo il riassetto, un Monte risanato e solido» (Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2016).

Gli archivi dei giornali custodiscono poi perle di questo tenore: «L’importante rafforzamento manageriale avviato da metà 2014 sulla gestione dei crediti anomali, con la creazione di un’unità interna dedicata, è destinata a dare grandi risultati» (10 maggio 2015). È finita che per cedere circa 10 miliardi di sofferenze nette (i crediti cattivi, difficili da recuperare) hanno dovuto chiamare il 118, mobilitando Tesoro, Cdp, Fondo Atlante e un pool di banche internazionali guidate da Jp Morgan. Sempre che tutto fili liscio.

Ora una banca schiacciata dai crediti deteriorati non dovrebbe mettersi sulle spalle sofferenze aggiuntive. Nemmeno quelle di un amministratore delegato che, al deficit di credibilità manageriale accumulato fin qui, somma adesso anche un sopraggiunto vulnus reputazionale. Viola è stato infatti indagato per falso in bilancio e manipolazione del mercato nell’ambito di un’inchiesta che ipotizza«la rappresentazione non corretta dei derivati Alexandria e Santorini nei bilanci dal 2011 al 2014». Il fascicolo, aperto a Siena dopo l’esposto di un azionista, è stato trasferito per competenza a Milano.

È una vecchia storia, anzi è “la” storia recente del Montepaschi. Si tratta delle due operazioni realizzate fra il 2008 e il 2009 per coprire perdite pregresse. Derivati iscritti in bilancio come tranquilli investimenti in titoli di stato, che quando esplode la sfiducia sull’Italia nel 2011 non si possono più nascondere e diventano la pietra tombale della gestione Mussari. La contabilizzazione erronea delle due operazioni, oggi chiuse, non cambia quando arriva Viola e, dall’aprile 2012, il presidente Alessandro Profumo (anche lui indagato, ma uscito dalla banca un anno fa). I due, anziché correggere i conti, scelgono di aggiungere una rappresentazione “pro-forma”, ritenendo così di avere assolto al loro dovere di assicurare «piena informazione agli azionisti». Una trovata che «non ha valenza ai fini civilistici», come ha dovuto ammettere la stessa banca. Non potrebbe essere diversamente: altrimenti chiunque sarebbe autorizzato a scrivere numeri di fantasia nei conti, e poi aggiustare il tiro con una tabella in fondo al bilancio.

La parte nuova della storia dei due derivati è che finora i magistrati si erano concentrati solo su Mussari & co. e sui vecchi bilanci, mentre stavolta l’attenzione è rivolta all’operato di Viola, che ha corretto i bilanci solo a fine 2015.  E qui si pongono alcuni interrogativi.

Primo, sul perché Mps abbia atteso la  richiesta della Consob quando aveva abbondanti informazioni al riguardo, tanto nella lettera dei contratti firmati con Nomura e Deutsche Bank quanto nelle risultanze emerse dalle ispezioni di vigilanza e in alcune decisioni giudiziali nel frattempo intervenute. Secondo, sul perché la Consob, che ha poteri di indagine non dissimili da quelli dei pm, abbia atteso le conclusioni dei magistrati. Terzo, sulle ragioni per cui la Procura di Milano si sia fermata ai bilanci della gestione Mussari, aspettando che arrivasse l’imbeccata da Siena, dopo aver meritoriamente sbugiardato i primi due sulla (non) esistenza dei 3 miliardi di Btp.

Si può osservare che le scelte di Viola e Profumo sui derivati coincidono temporalmente con l’erogazione dei “Monti bond” da parte del Tesoro. Se le operazioni fossero state contabilizzate perciò che erano, sarebbe emerso un buco patrimoniale a livello civilistico, lo Stato sarebbe dovuto entrare come azionista e la partecipazione della Fondazione Mps sarebbe stata spazzata via. Invece, Viola ha mantenuto l’impostazione di Mussari, mettendoci la “pezza” delle tabelle pro-forma; il Tesoro ha prestato 3,9 miliardi; la Fondazione ha guadagnato tempo prezioso per vendere le sue quote, come già rilevato da autorevoli commentatori. Con un po’ di cinismo, qualcuno potrebbe anche rallegrarsi del fatto che lo Stato abbia avuto indietro i suoi soldi e il conto è stato fatto pagare agli investitori in due rate, per un totale di 8 miliardi (qualcuno ha cominciato a far causa).

Ma il diavolo si dimentica sempre i coperchi. La partecipazione della Fondazione è stata comunque polverizzata, e un Montepaschi boccheggiante è nuovamente nella necessità di tornare col cappello in mano sul mercato. Non è una gran bella idea farlo con la faccia di Viola. Un signore al quale non sono bastati quattro anni per riconoscere un derivato, intanto che incassava una media di 2 milioni di euro l’anno, quali garanzie può fornire agli  investitori invitati a versare 5 miliardi di euro per ricapitalizzare Mps?

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