Finanza
L’errore grave di considerare le sofferenze solo un problema delle banche
Ieri, in una conferenza alla Camera dei deputati, Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo, ha manifestato con chiarezza il suo non favorevole orientamento alla cessione di crediti in sofferenza (i cosiddetti Npl, Non performing loans) a terzi. Il giustificatissimo motivo è che il cessionario (l’operatore che compra le sofferenze) ha interesse solo a liquidare il credito acquistato con qualunque mezzo (legale) non avendo alcun interesse, invece, a tenere in considerazione né le vicende della controparte né l’«effetto filiera» che l’azione aggressiva di pura liquidazione di un debitore bancario può avere su dipendenti, fornitori, territorio.
Gros-Pietro ha menato vanto che Intesa Sanpaolo negli ultimi tempi ha «rimesso in bonis» ben 40.000 posizioni in difficoltà”. Non è buonismo quello di Gros Pietro. È mestiere. È mestiere di banchiere che opera con responsabilità ben sapendo quali possano essere gli effetti nefasti del “pensiero debole” ma prevalente, che vede i clienti insolventi solo come merce da scambiare al miglior prezzo quando non sono più utili per creare margini in conto economico.
Non è in discussione il diritto/dovere della banca di recuperare il credito da chi non paga. L’equilibrio della banca si salvaguarda soprattutto mettendo riparo, nel tempo più breve possibile, all’incidente di percorso di aver dato credito a chi non lo meritava o non lo merita più. Non si può tutelare diversamente la stabilità della banca e il legittimo affidamento di risparmiatori ed azionisti.
Tutto questo è vero in una situazione normale, quando cioè lo “scarto di produzione” dell’industria del credito, le sofferenze, sono in misura fisiologica, cioè inferiore al 7/10% del totale dei crediti bancari. La situazione attuale non è questa: su circa 1.500 miliardi di crediti bancari verso la clientela, ben 350 miliardi sono classificati crediti deteriorati e di questi 200 miliardi sono vere e proprie sofferenze, cioè sono considerati in gran parte persi, tanto che nei bilanci delle banche valgono più o meno 85 miliardi.
Ma la situazione attuale registra anche che questi 200 miliardi di sofferenze riguardano formalmente poco più di 2 milioni nominativi tra persone fisiche e imprese, ma nella sostanza, considerando garanti, cointestatari e dipendenti, siamo vicini ai 10 milioni di persone.
Pensare che questo sia un problema tecnico delle banche è un tragico errore. Il problema è sociale ed economicamente gravido di conseguenze. Quindi è un problema politico.
Il pensiero debole e omologato sostiene che le banche debbono cedere i crediti ai fondi di investimento per liberarsi di questa zavorra. Questo metterebbe le banche nella condizione di poter tornare a finanziare l’economia sana. È una illusione per due motivi: primo, per vendere ai fondi le banche debbono registrare perdite consistenti che ne indeboliscono il patrimonio e le costringono ad improbabili aumenti di capitale con danno per gli azionisti che vedranno diluito il loro investimento; secondo, l’effetto filiera paventato da Gros-Pietro può comportare contraccolpi significativi sul piano sociale facendo pagare i costi della crisi alla parte più debole delle imprese e delle famiglie, negando loro il futuro.
Bisogna prendere atto – ed è questo un problema della politica – che a una crisi di questa portata e durata non si può mettere fine se, tra le altre cose indispensabili, non si trova una soluzione sistemica alle sofferenze bancarie. Non è una soluzione trasferire il problema dalle banche ai fondi di investimento, consentendo a quest’ultimi di trasformare in loro profitti le perdite delle prime, ma ancor più non dare la possibilità di tornare a lavorare per il futuro a tante famiglie. Bisogna avere il coraggio di creare una discontinuità forte rispetto a questa situazione di stallo. È una situazione di emergenza. Va affrontata con strumenti adatti.
Tra gli strumenti da adottare, non va esclusa una soluzione che metta in condizione debitore e banca di trovare soluzioni concordate nell’ambito di regole molto precise che favoriscano l’accordo non oltre il limite minimo del valore di mercato dei crediti, sostanzialmente corrispondente al prezzo che i cessionari sono disposti a pagare per acquistarlo.
Queste soluzioni concordate potrebbero essere favorite da un trattamento fiscalmente favorevole per le banche (ad esempio: deducibilità fiscale della perdita, immediata e opportunamente maggiorata), ma anche evitando che queste perdite condizionino negativamente l’impatto sui criteri di calcolo delle RWA (attività ponderate per il rischio), cioè del sistema di determinazione del maggior fabbisogno di capitale a fronte delle maggiori perdite da transazione.
È solo un esempio che farà però storcere il naso ai puristi dei regolamenti. Ma non si può pretendere che il futuro delle banche sia ulteriormente condizionato dagli effetti della crisi, aumentando la loro difficoltà di recuperare efficienza. Specularmente con le formule di soluzione concordata si potrebbero riportare a dignità di cittadini e di operatori economici tanti soggetti marginalizzati da una crisi che la politica non ha saputo frenare. Ma solo la politica può risolvere il problema.
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