Finanza
Bad bank europea e l’incredibile sciacallaggio sulle sofferenze italiane
Come avviene ormai ciclicamente, i giornali di questi giorni ritornano alla grande sul problema dei crediti deteriorati delle banche che ammontano a più di 1.000 miliardi di euro in Europa e circa 360 miliardi solo in Italia. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco denuncia l’oligopolio dei fondi speculativi, Unicredit annuncia una maxi perdita da 12 miliardi dovuta all’ennesima pulizia di bilancio sulle sofferenze, l’EBA propone una bad bank europea per affrontare e risolvere definitivamente il problema.
Finalmente Banca d’Italia, per bocca del Governatore, e con la pubblicazione dello studio “I tassi di recupero delle sofferenze” ci aiuta a capire meglio la situazione e fa chiarezza. Lo studio ci racconta come si siano comportate le banche italiane nel recupero dei loro crediti peggiori (le sofferenze: ad oggi poco meno di 200 miliardi valutati nei bilanci per circa 90 miliardi) dal 2006 al 2015.
La sorpresa è questa: il tasso di copertura delle sofferenze a dicembre 2015 era del 59%, quindi il recupero atteso era del 41%. Nel decennio 2006/2015 , il tasso medio di recupero è stato del 43%. Sarebbe stato invece del 47%, dice Banca d’Italia, se le banche non avessero venduto crediti in sofferenza ai fondi speculativi nel biennio 2014/2015 al prezzo stracciato del 23% facendo guadagnare agli acquirenti ben il 24% del valore lordo dei crediti.
Se si considera che l’arco di tempo di osservazione dello studio di Banca d’Italia copre tutto il periodo peggiore della crisi economico-finanziaria (non del tutto archiviata) si capisce facilmente che vendere le sofferenze ai fondi significa semplicemente che le perdite registrate dalle banche corrispondono quasi esattamente ai guadagni che faranno i fondi acquirenti. Se l’economia riprendesse, è verosimile che potrebbero guadagnare ancora di più.
Se, per ipotesi, tutte le attuali sofferenze (90 da miliardi netti) venissero cedute ai fondi ai prezzi correnti, le banche registrerebbero circa 40 miliardi di perdite e i fondi 40 miliardi di guadagno, almeno. Questo dato è ancora più evidente se si osserva, sempre dallo studio di Banca d’Italia, che sul campione delle prime 25 banche italiane, le cinque peggiori, tra il 2006 e il 2015 hanno registrato comunque tassi di recupero intorno al 40%, cioè ben 17 punti percentuali in più rispetto al prezzo di mercato che i fondi hanno pagato per le sofferenze acquistate. Appare quindi evidente che per le banche italiane, di norma, non conviene vendere.
Visco, finalmente senza peli sulla lingua, parla di un oligopolio dei fondi che sono disposti a comprare solo se ci guadagnano in modo esagerato a danno delle banche.
La Banca d’Italia aggiunge, in un altro recente studio, che per effetto delle regole europee sul capitale, le banche che utilizzano i modelli interni avanzati, cioè le più grandi, subirebbero un contraccolpo ulteriore di 90/190 punti base se vendessero ai prezzi correnti per l’effetto di trascinamento delle perdite da cessione sugli accantonamenti dei crediti in bonis. Insomma, piove sul bagnato. Banca d’Italia, a questo proposito, propone quindi di sterilizzare questi effetti per qualche anno, dando tempo alle banche di ripulire i bilanci dalle sofferenze favorendo così le cessioni.
L’osservazione è corretta, ma francamente la conclusione sembra un po’ in contrasto con l’evidenza del primo studio qui citato che dimostra come le banche, se si gestissero il contenzioso da sole, non accumulerebbero perdite a beneficio dei fondi. Va da sé che questi ragionamenti sistemici, nella pratica ammettono molte eccezioni. Esempio tipico quello dei micro-crediti (partite fino a 5000/10.000 €) che non conviene gestire per una questione di costi operativi che sono ben superiori ai benefici e che difatti sono quelle più correntemente cedute a operatori specializzati. Resta il fatto che il peso delle sofferenze rende inefficiente il sistema bancario nel suo ruolo di propulsore della ripresa economica del nostro Paese e favorisce la speculazione borsistica al ribasso che mette in angolo non solo gli investitori, ma le banche stesse.
Il caso di UniCredit è emblematico. Il nostro unico campione di respiro europeo è all’ennesimo giro di valzer tra svalutazione delle sofferenze di inusitata misura (12 miliardi) e necessità di ricapitalizzazione da 13 miliardi, dopo 11,8 miliardi di perdite nel bilancio 2016.
Le svalutazioni delle sofferenze sono coerenti con le operazioni di cessione a favore di due fondi speculativi di portafogli deteriorati per un totale di 19 miliardi, appena concluse. Operazioni forse inevitabili, ma che mal si conciliano con i dati degli studi di Banca d’Italia citati, che appunto dimostrano come le banche recuperino di più se gestiscono, anziché vendere, le sofferenze. Ma questa strada UniCredit l’aveva già imboccata anni fa quando decise di vendere, non solo molte delle sue sofferenze, ma anche la sua molto apprezzata piattaforma di recupero (Uccmb oggi doBank) proprio ad uno dei fondi che ora è il compratore di gran parte delle sofferenze residue.
UniCredit ha seguito una strada opposta a quella del suo diretto concorrente, Intesa, che ha invece reinternalizzato la gestione del recupero, mettendo fine ad un’esperienza decennale di esternalizzazione, evidentemente non soddisfacente. Interessante osservare che in tutti e due casi il fondo in questione era Fortress, abbandonato da Intesa e adesso sposato con UniCredit. Sicuramente le problematiche sono diverse, ma, al momento, Intesa non ha fatto svalutazioni catastrofiche e cessioni dolorose e non sembra abbia necessità di ricapitalizzarsi. Ne sembra correre rischi di “continuità aziendale” come si è affermato per UniCredit.
A ruota delle notizie fin qui riportate, arriva l’EBA con la sua, al momento un po’ fumosa, proposta di bad bank europea a tempo (tre anni!). Molti commentatori hanno già messo in evidenza che le notizie diffuse creano più domande che risposte, ma si può immaginare che se la bad bank europea avesse dei propri dipartimenti nazionali autonomi con propri bilanci ed avesse vincoli temporali meno improbabili, forse l’idea non sarebbe peregrina.
Se c’è un campo in cui le differenze delle regole legali e dei comportamenti operativi da adottare sono particolarmente marcate nei vari paesi dell’Unione è proprio quello della gestione delle insolvenze.
D’altra parte una bad bank europea, se articolata come appena detto, potrebbe effettivamente contrastare l’oligopolio dei fondi avendo obiettivi di tasso di rendimento intorno a quelli di mercato (4/6%) contro il 15/20% dei fondi speculativi. Tasso di rendimento quest’ultimo responsabile in gran parte del gap tra prezzo di vendita sostenibile dalle banche (prossimo al valore netto di libro dei crediti) e quello di acquisto dei fondi che, come dice Banca d Italia, può solo creare un baratro nei conti dei venditori e quindi delle collettività nazionali che subiscono gli effetti della socializzazione diretta (investitori) e indiretta (costi dei servizi bancari e inefficienza allocativa) delle perdite degli istituti di credito.
È chiaro che una bad bank europea avrebbe il sapore di una ulteriore limatura delle autonomie nazionali a favore del centralismo di Bruxelless, ma, rispetto alla incapacità/impossibilità delle banche nazionali (almeno delle nostre , si è visto con Atlante!) di sottrarsi all’abbraccio mortale dell’oligopolio speculativo, ben venga una soluzione di questo tipo opportunamente congegnata e condivisa.
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