Europa

Dal semestre europeo Renzi (e l’Italia) escono con un pugno di mosche

1 Dicembre 2014

Siamo a un mese dalla fine del semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea. Un semestre che avrebbe dovuto cambiare drasticamente l’Europa. «È una grande sfida per ritrovare l’anima dell’Ue, per ritrovare il senso profondo dello stare insieme», annunciòil 2 luglio scorso il presidente del Consiglio Matteo Renzi nel suo discorso a Strasburgo, nel momento in cui assumeva la presidenza dell’Unione. «Noi abbiamo la responsabilità di guidare il cambiamento in Europa», ribadiva due mesi dopo dal palco della Festa dell’Unità a Bologna.  In realtà non si può dire che si sia visto molto in questi mesi, anche se il presidente del Consiglio rivendica a sé, forzando decisamente la mano, il piano di investimenti da 315 miliardi di euro che il neo presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha illustrato a Strasburgo la settimana scorsa.

A scartabellare i documenti qualche piccolo elemento positivo c’è: l’accordo sulla direttiva per ridurre i sacchetti di plastica  e l’intesa politica sulla lotta ai trucchi fiscali delle grandi società, per esempio.  Però, su alcuni grandi temi cari all’Italia, come il famoso “Made in” o l’immigrazione – la missione “Triton” nel Mediterraneo è un contentino – o su questioni importanti come il bilancio Ue per il 2015, o ancora il negoziato Ue-Usa per l’accordo di libero scambio Ttip, la presidenza italiana non è riuscita a portare a casa un granché.

Non a caso questo lunedì lo stesso Renzi ha di fatto ammesso che i risultati non sono brillanti, lamentando che la fase di «transizione ha caratterizzato nel bilancio del semestre un rallentamento dei dossier», visto che «larga parte del tempo è stata dedicata allo sblocco dello stallo istituzionale». Indubbiamente il semestre italiano si è trovato nel bel mezzo della transizione tra la vecchia e la nuova Commissione Europea, il vecchio e il nuovo Parlamento Europeo, e anche la nomina del nuovo presidente del Consiglio Ue e la conseguente partita delle nomine alle alte cariche Ue. Detto questo, resta che quel che non si è visto è una visione sul futuro dell’Unione, al di là dei generici proclama sul «cambiamento». Anzi, Renzi ha salutato l’avvio della Commissione guidata da Juncker nel segno della rissa con il lussemburghese, con il premier a Roma a insistere (come anche questo lunedì) che «l’Ue europea non può diventare solo un terreno di scontro fra ragionieri che ragionano dello ‘zero virgola’»,  salvo beccarsi la replica irritata di Juncker, giorni fa: «Non sono il capo di una banda di burocrati». Per non parlare dei veleni con Angela Merkel, al grido «non tratti gli altri come scolaretti».

Il guaio è che anche la Francia, storica fucina di pensiero europeo, latita, tra la debolezza di François Hollande e la potente avanzata di Marine Le Pen. Risultato: di fatto l’unico paese a portare avanti una visione di più ampio respiro sull’Europa è rimasta proprio la Germania, finora additata come spietato sacerdote della micidiale austerity. E per Germania intendiamo soprattutto l’ultimo grande volto della storica Cdu europeista ancora al governo, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble. Il quale insiste da anni – da ultimo solo pochi giorni fa – su un punto che invece a Parigi (ma anche, almeno in parte, a Roma) appare tabù: modificare i trattati per correggere le molte, troppe lacune dell’unione monetaria cui non è mai seguita quell’unione politica che Helmut Kohl negli anni Novanta cercò invano di far digerire a François Mitterrand. Se le regole attuali non funzionano o funzionano male, è il ragionamento tipicamente tedesco, la risposta non può essere,  latinamente, improvvisando o semplicemente ignorandole. Semmai, bisogna cambiarle con tutti i crismi: dunque cambiando i trattati.  «Non voglio continuare a difendere l’euro per i prossimi cinque-dieci anni con l’attuale governance», ha detto giorni fa il ministro in un congresso dei banchieri europei a Francoforte.

Schäuble insiste per una vera unione fiscale con tanto di “ministro delle Finanze Ue” con diritto di veto alle leggi di bilancio. Sullo sfondo, l’idea di una integrazione più serrata, visto che, ha detto in un convegno sull’economia organizzato la settimana scorsa dalla Süddeutsche Zeitung a Berlino, «che ci piaccia o meno gli sviluppi globali travalicano le frontiere degli Stati nazionali». Il ministro ha rispolverato la vecchia idea cara a lui e un altro grande vecchio della Cdu europeista, Karl Lamers: quello del «nocciolo duro europeo». E i crescenti malumori di milioni di cittadini verso l’Ue? Secondo Schäuble, la ragione «è nella quotidianità non sempre molto attraente delle istituzioni europee», bisogna rassegnarsi «che persone e società non si lasciano programmare e pianificare». La risposta? Non piacerà agli antieuropeisti, perché è assolutamente nel segno del sogno europeo: «la federalizzazione dell’Europa», con un centro forte per le cose che gli competono e il resto delegato alla periferia. Si può non esser d’accordo ma a parte Schäuble non è rimasto nessun altro, a quanto a pare, a ragionare concretamente sulle grandi visioni per il futuro europeo. Certo non la presidenza italiana dell’Ue.

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