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Il rapporto fra il Censis e l’ideologia delle aspettative decrescenti

6 Dicembre 2014

Da anni mi trovo a dissentire con il Rapporto Annuale del Censis.  Non tanto perché i dati presentati non siano giusti, anche se su alcuni di essi ho da ridire, quanto per l’ideologia sottostante che continua a insistere sul clima di allarme e sulla denuncia. Come se avessimo bisogno di risentirci dire ogni anno quanto stiamo male quanto sia grave il nostro declino, quanto disorientamento ci sia nei nostri pensieri.

Siamo in un momento storico in cui noi osservatori sociali abbiamo una responsabilità che è precisamente quella di assumere il peso delle nostre analisi e la loro rilevanza nel costruire lo stesso contesto che rappresentiamo. La distanza tra osservatore e osservato si riduce perché siamo più che mai anche noi stessi parte del clima sociale di cui scriviamo.

Il punto di vista in questi casi si sa è fondamentale e omettere le tante positività di questo momento storico significa prendere una posizione di retroguardia, di culto del passato rispetto al nuovo emergente. Che senso ha ad esempio parlare di solitudini quando mai come oggi il nostro paese è tenuto assieme da fortissimi legami comunitari di appartenenza? Quando gli italiani, alleandosi, stanno reagendo alla crisi con tanti piccoli miracoli, quando la creatività diffusa sta producendo un’infinità di nuovo progetti.

Il piccolo è la scala di questo momento senza risorse materiali ma con grandi risorse di spirito. Si parla di ore passate da soli, ma non si parla della rivoluzione dei linguaggi digitali che ci mette ormai costantemente in relazione gli uni con gli altri. E non facciamoci confondere dagli scandali e dai declassamenti, non è questo il nostro mestiere. Andiamo avanti come sappiamo fare. Non contrappongo nel mio controcanto i dati di Episteme, e ne avrei tanti.

I dati si sa possono essere letti in molti modi. È il quadro generale a contare, la direzione che vogliamo dare ai nostri strumenti di indagine. Qui la tesi di fondo è fondamentale. Prendiamo gli immigrati, ad esempio. Loro stanno bene, si dice, e sono messi meglio di noi. Ma non si parla delle aspettative crescenti, che sono l’avvio motivo per cui chi stava peggio non può che vedere come miglioramento anche quel poco che trova. E poiché le aspettative decrescenti sono il più grande dei nostri problemi, e la più insidiosa delle nostre ideologie, proviamo ad invertirle. Cominciamo ad assumere la responsabilità delle nostre scelte e del futuro che consegnamo ai nostri figli. È troppo facile pensare che non dipenda da noi. Cominciamo a saper riconoscere il senso umano dei nostri sforzi e di quello che stiamo, seppur nella fatica, seminando. È più facile suonare le campanelle del capitale umano bloccato, ma non ci porta da nessuna parte.

 

Nella foto, Giuseppe De Rita, presidente dell’istituo di ricerca socio-economica Censis

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