Arte

Napoli, un giorno tra i murales di Materdei, il rione che resiste

13 Marzo 2016

“Resistere è anche esistere. A noi piace la bellezza. A noi che la abitiamo, Materdei piace colorata e poetica” (collettivo Materdei. Per R_esistere ci vuole pure la bellezza)

Mentre Bologna scolora sotto i colpi di Blu intento a cancellare le opere che hanno caratterizzato alcune zone della Dotta per anni (ne abbiamo scritto qui), a Napoli, nel rione Materdei, un omone verde svetta dalle pareti fatiscenti dell’ex ospedale psichiatrico. Anche questa è un’opera di Blu, tra i più famosi street artist al mondo.

È un sabato qualunque di marzo quello in cui impugno la mia Canon e decido di andare a vedere. Cincischio nella zona vecchia del rione, tra via Imbriani, salita San Raffaele e via Santa Teresa degli Scalzi. Niente a che vedere con quello che vedrei se mi spingessi più su, dove la fa da padrone uno stile liberty da primo Novecento. Non c’è quasi nessuno per strada. Colpa di un marzo incerto, piovoso. Di un cielo grigio persistente e che inizia a stancare. L’opera di Blu è un’anima in pena e ti accoglie con la bocca spalancata, come quell’urlo famoso in tutto il mondo.

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Giungendo a piedi da Salvator Rosa non la vedi subito. Poi la scorgi e ti rapisce. Rappresenta l’isolamento di una condizione, di quello che accade se sei oltre la linea dei “normali”, degli “innocenti”. Una specie di alieno che strilla e non vede, o vede troppo. L’ex ospedale psichiatrico, di contro, pare sbriciolarsi (finestre senza infissi, intonaco da rinfrescare, ruggine, muffa), mentre l’anima in pena si ribella e ci invoca.

Scatto fotografie, intanto che questo non luogo riprende vita o sarebbe meglio dire morte. Giro intorno alla struttura, salgo su per una scalinata che pare infinita. A metà mi volto: non odo alcun trambusto; da quassù la Città pare dormiente, impigrita. Arrivo ad un piazzale: altro colore, altre rappresentazioni a smorzare il senso di abbandono, di apartheid. Se quel che vediamo ci condiziona, allora questo colore sia benedetto. Che questo colore colmi lo squallore, vivacizzi ogni angolo di questa prigione, che da qualche tempo il collettivo Je so pazzo sta recuperando, organizzando incontri e attività socio-culturali.

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Vado oltre, proseguo lungo salita San Raffaele (per me una discesa). Qui Parthenope di Francisco Bosoletti, artista argentino, domina maestosa e bellissima da un muro di quindici metri. Bosoletti l’hanno voluto gli abitanti del rione e questa meraviglia è il risultato di un’altra azione dal basso.

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Anche l’ex convento delle suore Teresiane è una galleria a cielo aperto. La mia amica mi fa notare che, dietro la serpentina delle auto parcheggiate in questo budello di via, c’è la raffigurazione di una ragazza dal volto etereo e afflitto. L’opera si chiama Giardino liberato, capolavoro nascosto tra un televisore abbandonato sulla strada e le auto che risalgono San Raffaele a gran velocità.

Giardino-liberato-bosoletti-materdei

La contemplazione dura poco. Un signore mi dice di stare attenta, di non tenere la macchina fotografica in bella vista. Così mi innervosisco, poi mi intristisco. Penso che di persone con le macchine fotografiche ce ne dovrebbero essere a centinaia, come a Berlino, davanti ai resti di un passato multicolore. Materdei va riqualificata con un’azione massiccia da parte dei cittadini e delle istituzioni. È qui che Napoli ha resistito quattro giorni contro l’invasione nazista negli anni Quaranta. È da qui che Napoli potrebbe andare incontro al futuro che scalpita, sempre più colorato e accogliente. Nonostante tutto.

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